Andare al Miami è sempre un’esperienza piacevole e divertente. Sarà un po’ perché è il fulcro della scena indipendente italiana, un po’ perché il Magnolia estivo è probabilmente il locale più piacevole di tutta Italia, un po’ perché, alla fine, ti fa capire che il nostro amato stivale produce chicche. E così mi dirigo verso Milano per la mia seconda partecipazione al festival, arrivato alla dodicesima edizione.
DAY 1:arrivo alle 18 e qualcosa. Supero con le scioltezze le ragazze della Rizla che regalano cartine (e sì che ammetto che le avrei prese se fumassi tabacco, ma mi concedo giusto qualche sigaretta da sobrio, da ubriaco non so), faccio un sondaggio su richiesta di un ragazzo e, adempiute queste doverose formalità mi dirigo al bancone della birra. Il Mi Ami è strutturato su due palchi: uno grande, detto Palco Pertini, e uno sulla Collinetta, col nome del main sponsor.
Fa un po’ umido e si sta bene. Birra chiara alla mano mi godo sulla Collinetta lo show di Verano. La gente è sdraiata, si rilassa, guarda un po’ distrattamente chi suona, qualcuno va anche a sposarsi da un grande Elvis in versione ultimi anni (sono ammesse tutte le forme di matrimonio con tutti i numeri possibili di persone).
Il venerdì, primo di due giorni di un festival storicamente su tre date ma ridotto a due consisteva in una rimpatriata al Pigneto: Motta, I Cani, Tommaso Paradiso e Calcutta. Ovviamente pare inutile dire che la frase “so’ de Roma” quel giorno fosse particolarmente inflazionata. Ma è il momento musicale della capitale, ed è ovvio che vada così. Motta riscuote consensi sul palco Pertini con giusto qualche problemino tecnico, seguito dall’attesissimo Cosmo, il cui disco “L’ultima festa”è una dose di adrenalina. Poco alla volta il pubblico innanzi al Palco Pertini è cresciuto.
Dall’altra parte all’esibizione di Tommaso non sono di meno, forse c’era un po’ meno Vasco di quanto dichiarato (e ammetto di non essermi strappato i capelli per questo), però alla fine con un po’ di savoirfaire da intrattenitore, qualche battuta scambiata col pubblico, e un paio di singoli dei Thegiornalisti vecchi o nuovi il pubblico è rimasto soddisfatto.
Ormai quasi non si cammina più al Magnolia e bisogna compiere delle scelte dolorose: salto i Cani sul palco grande perché i Gazebo Penguin sono un pezzo di cuore e nel frattempo la degenerazione alcolica prende il sopravvento sulla professionalità dell’inviato. A seguire Calcutta suona sul palco Rizla praticamente in una dimensione ultras in cui a stento se ne distingue la voce; neanche lo si riesce a vedere da quanta gente c’è. Terminati i concerti sui palchi, ci si riversa in condizioni non proprio eccellenti in massa sul palco elettronico, forse quello con meno nomi, ma il rapporto di qualità è elevatissimo. Su tutti segnalo LIM: progetto solista di Sofia Gallotti, tastierista degli Iori’s eyes, ne sentiremo parlare sempre più.
DAY 2: parcheggiare la macchina più vicino rispetto al giorno precedente era uno degli obiettivi della giornata, parzialmente conseguito. Il cartellone presentava in media nomi meno da prima pagina, con una qualità media decisamente notevole. Voglio subito sentirmi a casa, sono le sette e stanno per iniziare i Joe Victor, dal vivo un’esperienza trascinante. Si sono guadagnati centinaia di fan (un paio delle quali sono rimaste fuori al loro ultimo concerto al monk) con l’intensità delle loro esibizioni. Probabilmente è troppo presto per una band tale ma le aspettative sono confermate: precisi, divertenti, divertiti e anche vagamente emozionati (e non è sempre un difetto). Lasciano un eredità pesante ai C+C = Maxigross, impegnati nel loro tour pre Primavera sound (avevo detto che la qualità era alta, no?), che riesco a osservare trangugiando la solita chiara media, prima di accorgermi che sta per iniziare Matilde Davoli.
Immediatamente mi precipito al palco di Rizla dove stanno suonando le ultime note di “Salvation”, dal disco “I’m callingyou from my dreams”. Non c’è nulla da fare, ad oggi è tra i più esportabili progetti italiani, meglio curati nei suoni e meglio resi dal palco. Inframezzo l’esibizione di Wrong on You, da noi Exitwellers amato, con la finale di Champions, e non starò troppo a sottolineare quanti tutti tifassero Atletico e quante belle parole si sono sentite al momento in cui il rigore decisivo di Juanfran finiva sul palo. Almeno erano sovrastate da Iosonouncane e dal pezzo più bello scritto negli ultimi anni, “Stormi”. Dall’altra parte concludevano il set i Selton, la band antidepressiva per eccellenza: quattro ragazzi in grado di contagiare letteralmente la gioia. Consiglio vivamente quel piccolo gioiellino di “Loreto Paradiso”. E poi back in 2006 con i Ministri e “I soldi sono finiti” dall’inizio alla fine, inframezzato da qualche extra. Poi la scelta è tutta elettronica, tra il djset dei BloodyBeetroots e il palco elettronico e reggae che va avanti sino a ben tardi. E poi cala il sonno, Elvis è già andato a casa da un pezzo, ma ci si continua a sposare in quel piccolo altarino all’ingresso, e qualche malcapitato non al meglio della condizione chiede se la “cerimonia” officiata nel pomeriggio avesse valore legale. Andiamo a casa, dai.
Bilancio complessivo: Posto fantastico, d’altronde non si diventa uno dei migliori club d’Italia così dal nulla. Migliorata anche l’organizzazione, nonostante qualche lentezza che, oltre ad essere scusabile, è francamente inevitabile (un plauso al numero elevatissimo di volontari di rockit che sono saliti per dare una mano). In ottica viveri anche si è registrato un miglioramento con diversi truck di slow food e una certa libertà di scelta, che ha comportato necessariamente anche un prezzo abbordabile. Peccato giusto per la poco varietà delle cose da bere, birra non male ma solo chiara. Comunque parliamo di piccoli dettagli all’interno di un festival che quest’anno, con l’ausilio anche del bel clima, è riuscito a totalizzare un elevato numero di presenze, specialmente nella prima giornata, confermandosi tranquillamente come centro nevralgico dell’Italia indipendente. Arrivederci a giugno 2017.
Giovanni Romano