Compositore italo americano che ormai vive a Bologna, Alessandro Baris, lui che finalmente lavora al suo suono e alle sue composizioni e ci regala questo lavoro dal titolo “Sintesi” dentro cui troviamo preziose featuring come Lee Ranaldo dei Sonic Youth per il singolo “Last Letter to Jayne” impreziosito anche dal video dell’artista francese Luigi Honorat, e poi le voci di Emma Nolde e Lisa Papineau (eclettica cantautrice americana, collaboratrice fra gli altri di Jun Miyake, Air e M83). Trasposizioni del sentire, del vedere, del concetto di forma e di quel certo modo di pensare alla musica. “Sintesi” è disponibile anche in una preziosa release in vinile.
L’America, il mondo e le sue tante contaminazioni. La sintesi di queste è racchiusa dentro questo disco?
In termini strettamente musicali le scene di New York e Chicago, nelle loro espressioni più audaci e innovative, hanno avuto una forte influenza su di me così come anche certe sonorità europee, in particolare quelle nordiche e la musica classica – questi riferimenti sono indicativi in quanto una delle poche cose di cui sono pienamente cosciente è che la contaminazione fa parte del mio istinto musicale – penso che mettere insieme ingredienti tra di loro estranei possa dar vita a materia interessante ma non è scontato riuscirci.
In generale ho la percezione, giusta o sbagliata che sia, che in America ci sia più leggerezza nell’abbattere i muri tra i generi e provare nuove combinazioni mentre in Europa mi sembra di avvertire più rigidità in questo senso, specie nell’ambito della musica elettronica.
Dall’Italia del nostro scenario indie elettronico… cosa hai preso?
Non è stato così presente in verità e forse lo conosco anche poco – posso dire invece che durante la lavorazione di “Sintesi”, ho fatto ascoltare i brani ad amici musicisti verso cui ho molta stima e affetto come Ofeliadorme, Joycut, Julian Zyklus, Donato Epiro, Suz, Stefano Pilia, C’mon Tigre, Massimo Volume, per avere un loro parere. Quando si lavora intensamente nel riempire una pagina bianca è difficile avere un ascolto che non sia emotivamente coinvolto – un’ ascolto esterno da parte di musicisti con cui senti di avere affinità può darti delle indicazioni importanti.
Ormai di stanza a Bologna e la domanda è inevitabile: sempre pensiamo alla nostra scena come qualcosa di “provinciale”… cosa ne pensi?
È un discorso complesso che non si può semplificare troppo, ci sono dei risvolti sociali verso i quali temo finirei per fare una crociata e non è questa la sede.
La mia modesta e piccolissima posizione è che negli ultimi 20 anni fino ai nostri giorni, ci sia stata una tendenza della musica indipendente verso i grandi riflettori ai quali personalmente preferisco il buio. Vedo poco coraggio, tanta ruffianeria e molto arrivismo. La musica, così come l’arte, nelle sue forme più elevate dovrebbe essere rivoluzionaria e non edulcorare o peggio ancora imbellettare altrimenti diventa servile e borghese.
Nel panorama italiano Bologna secondo me è una caso a sé stante – c’è ancora un fermento variegato e molta attenzione anche verso linguaggi artistici meno scontati, credo sia unica in questo senso anche se spero di sbagliarmi – pur essendo a misura d’uomo non ha un atteggiamento provinciale, ma anzi c’è una comunità artistica genuina e calorosa, di cui è facile sentirsi parte, dove è spontaneo collaborare e avere uno scambio con altri musicisti, senza considerare l’offerta culturale che è altissima.
Interessante il visual video di Luigi Honorat… molto immerso per un brano altrettanto ricco di visioni. Come a dire che la vita è fatta di piccolissimi frammenti e dettagli, il resto è rumore di fondo… o sbaglio?
Credo che sia giusto che tu colga il significato che senti più adatto e vicino a te, qualunque esso sia.
Quello che mi ha colpito di Luigi è che riesce ad essere poetico e comunicativo nonostante utilizzi un linguaggio come la video art che in alcuni casi può risultare freddo e distaccato. Le sue parole riguardo al visual di “Last Letter to Jayne” sono queste: “La forma del visual rappresenta due entità, dall’ordine al caos, che interagiscono e penetrano l’una nell’altra. Nell’epilogo finale, la purezza è sparita, un’entità prende il sopravvento e la luce svanisce. Volevo che lo spettatore divenisse parte attiva, entrando dentro l’evoluzione delle forme, quasi in balia di queste due entità, piuttosto che rimanere semplice osservatore esterno”.
Per quanto mi riguarda penso che la vita sia la rappresentazione soggettiva di ciascuno di noi e che smette di esistere con noi – più che un insieme di frammenti e dettagli io la vedo come un insieme di istanti. Da sempre ci poniamo quesiti sul mistero dell’esistenza e da sempre troviamo solo la risposta al come ma non al perché.
E tutta questa sospensione del suono come della scrittura, ha qualche legame anche col tempo distopico in cui viviamo?
Il suono e la scrittura sono la sublimazione del mio rapporto con il tutto inteso anche come tutti. Quanto al momento storico in cui viviamo penso che la vera distopia sia lo sviluppo, specie nel modo in cui è stato concepito e indirizzato; guerre ed epidemie non sono che una conseguenza (emotivamente scioccante) dello slancio verso il peggio di questo preciso sviluppo. Provo per quanto possibile a restarne fuori, non leggo le news e non ho il televisore. Vivo giorno per giorno dedicandomi a quel poco su cui ho un minimo di controllo.