– di Martina Rossato –
Esce oggi il video di “Dicono che tu”, l’ultimo singolo di Andrea Dodicianni, al secolo Andrea Cavallaro, scritto in collaborazione con Golden Years. Il brano è un manifesto di libertà, un invito ad essere sempre se stessi, rivendicando il nostro diritto ad essere unici e, perché no, anche un po’ strani. Dodicianni è un artista a tutto tondo, musicista, cantante e performer, definisce Arte tutto ciò che gli permette di esprimersi.
Il video che accompagna il brano è ambientato in un mondo colorato e sincero, tra sottili reference cinematografiche e atmosfere irreali. Scritto e diretto da Martin Alan Tranquillini, il video è una produzioneNevada Inc., con la collaborazione associata di Abisso Studio e Illmatic Film Group.
Abbiamo fatto due chiacchiere con Dodicianni sul suo nuovo singolo, ecco cosa ci ha raccontato!
Cominciamo parlando di “Dicono che tu”. Come ti senti?
Sono molto contento, ovviamente. Tutti devono dire che sono molto contenti appena è uscito un nuovo pezzo, in realtà nel mio caso è proprio vero, perché si è aperta una nuova fase creativa, una nuova fase particolarmente felice per me perché riesco finalmente a spaziare su dei suoni moderni, contemporanei, influenzati dalla mia vita quindi dalla mia passione per la Francia, tutto ciò che è un po’ danzereccio in maniera un po’ kitsch.
Come è nata la tua passione per la Francia?
Non so come sia nata questa passione. Sono sempre stato affascinato da questo grande Paese. Di solito si dice che i francesi siano un po’ stronzi. Invece ci sono andato molto spesso, anche di recente ho fatto un viaggio di quindici giorni per la Francia, e ho scoperto che in realtà non è così. Solo i francesi di Parigi sono un attimo “opinabili”. Per il resto no, ci sono città storiche, poi io ho una passione per l’arte, per la storia, per tutto ciò che è in qualche modo nascosto e segreto. La Francia è piena di questi posti – anche l’Italia, sicuramente – ma la Francia in particolar modo, quindi forse è anche questo. Poi la cultura pop francese mi fa impazzire.
A proposito di Arte, cosa significa per te fare arte? Ti senti un artista?
Credo che solamente gli stupidi riescano a dire “io sono un artista”. Non so, non mi sento di dire “faccio arte”. Faccio qualcosa, cerco di esprimermi, poi c’è chi la giudica arte, ma ci sono anche tante persone per le quali le cose che faccio sono stronzate. È una cosa talmente soggettiva.
Sono completamente d’accordo sulla definizione di arte. Mi incuriosisce molto il fatto che al di là di fare musica, fai queste performance artistiche – è l’unico termine con cui mi sento di definirle.
Le persone tendono a dire “fai anche questo”, in realtà per me è un flusso unico, un canale unico nel senso che non faccio musica per fare musica. Per me la musica è un mezzo come lo sono le performance, come lo è il fare una torta. Cerco semplicemente il canale giusto per veicolare un messaggio. In questo caso, in “Dicono che tu”, parlo di questo disagio, questo senso di vizio perenne delle persone in qualsiasi cosa fai in qualunque posto tu vada. Molte volte, ci sono mezzi più aderenti al messaggio. È un medium, nulla più.
E chi è questo tu cui ti riferisci?
In realtà, nonostante la canzone parli al femminile, è un pezzo abbastanza autobiografico. Ci sono stati diversi momenti della mia vita in cui mi sono sentito come quel “tu” lì, anche godendone a volte. Essere “quello diverso” a volte mi ha fatto piacere, a volte mi ha rotto il cazzo.
Quando dici “non puoi scappare per sempre”, scappare da cosa o da chi?
Scappare un po’ da questo giudizio, si parla molto di notte in questo pezzo. È il momento in cui tutto sembra più grande, più insormontabile. I problemi tornano, quando la sera si spegne il telefono la sera per mettersi a dormire; anche il giudizio che fino a un minuto prima sembrava stupido e pensavi “chissene frega, io sono più forte”, perché durante la notte i problemi presentano il conto. Arriva quel momento in cui dici “mi piace essere diverso” però ha anche un prezzo.
A proposito di questo giudizio: si tratta di una cosa tendenzialmente negativa, e al tempo stesso mi fa pensare a una responsabilità. Tu senti di avere questa responsabilità nei confronti di chi ti ascolta?
In realtà, se pensassi di averla sarebbe la fine, nel senso che mi è capitato di avere questo senso di responsabilità. Ma poi sento il peso del giudizio, ad esempio se esce un mio pezzo mi chiedo subito “che cosa diranno?”, e secondo me i momenti più bassi del mio percorso sono quelli in cui mi sono fatto questo genere di domande. Per questo pezzo ho voluto totalmente fregarmene. Fortunatamente sta andando molto bene come pezzo, però al di là dei freddi numeri, credo di essere riuscito a non farmi questa domanda e spero di non farmela mai più. La vedo come la morte del provare a fare arte.
Per quando riguarda la collaborazione con Golden Years?
Pietro è un produttore ormai sulla bocca di tutti, quindi è stato per me un onore lavorare con lui. Oltre ai suoni, al rapporto umano che si crea – comunque passi parecchi giorni in studio, entra nel tuo vissuto – mi piaceva il fatto che lui è romano. Questo singolo ha alle spalle una forte squadra di base romana. È un personaggio squisito anche a livello umano. È andato tutto bene; questi mashup nati in laboratorio non sempre escono bene, invece ho preso, sono andato a Roma da lui, siamo stati insieme, abbiamo creato delle cose insieme. Il fattore umano è stato determinante nel nostro rapporto.
Tu invece di dove sei?
Io sono veneto, cerco in tutti i modi di celarlo, ma dopo due o tre domande mi tradisco da solo. Mi sono appena ritrasferito in Veneto dopo un periodo di tre anni in Alto Adige, adesso ti chiamo da Verona. Sono vicino a Milano, a Bologna, a casa dei miei a Venezia. È un punto strategico più che con dei veri interessi nel mondo musicale e dell’arte. È una bella cittadina, dove riesco a respirare la mia dimensione, che è comunque una dimensione medio-piccola.
Tornando alla collaborazione con Golden Years, cosa è cambiato rispetto ad altre collaborazioni precedenti?
Quando vai da un produttore, ti devi fidare. Se cominci a mettere dei paletti è controproducente, e con lui sono riuscito a fidarmi ciecamente fin da subito, l’ho lasciato fare e alla fine ha sempre avuto ragione lui. Noi artisti siamo insicuri al livello master, i re dell’insicurezza, avere qualcuno al tuo fianco che ti dà sicurezza aiuta tanto. Pietro ha sempre fatto questo, con il suo modo di essere anche molto diretto. Posso dirti che aveva ragione, altri produttori non ti sanno trasmettere questo senso di sicurezza.
Quali sono le tue influenze musicali? C’è un genere che ascolti in modo particolare?
Ho proprio davanti i miei vinili, ti direi soprattutto i cantautori americani, molta musica francese e l’opera. L’opera mi piace molto, mia madre è una cantante lirica, le radici sono lì. Mi è arrivata molto la classica, mai in modo troppo forzato, Puccini è uno dei miei fari. Cerco sempre di rubare, per quanto sia impossibile rubare a uno come lui. È una delle mie influenze.
C’è un pezzo che hai scritto con più cuore e un pezzo in cui hai messo più rabbia?
Parto dalla rabbia, c’è un pezzo che si chiama “La bocca di Audrey”, che ha cinque o sei anni ormai, lì ero incazzato e l’ho scritta con rabbia. Forse un pezzo con amore, ti direi “Proteggimi dal male”, che è l’ultima traccia del mio precedente EP. Quella è stata fatta con tanto cuore e tanta sincerità. Quello era un EP registrato in presa diretta, un’operazione verità. Fai rec, quello che c’è c’è, errori compresi. È stato un esperimento faticoso, soprattutto a livello mentale, ma molto bello. Lo rifarei.