– di Riccardo De Stefano –
C’è un piacere meschino nel godere della decadenza. Come muoversi tra le foglie degli alberi che appassiscono in un autunno, col solo compito di aprire le porte al gelo dell’inverno. Chissà, forse è per questo che ogni anno inizia proprio con l’inverno e si chiude nella stessa stagione. Così anche questo 2022 inizia fra i venti glaciali di una situazione che ormai ha da tanto tempo superato la tragedia per trasformarsi in farsa. Stiamo vivendo uno dei momenti più drammatici della musica e della cultura, eppure fingiamo ancora che “alla fine della pandemia” ci sarà una ripresa e magari qualcuno ancora pensa che ne usciremo migliori.
La pandemia non è più un’emergenza, ma la realtà
Dalla seconda settimana di marzo entreremo di fatto nel terzo anno della pandemia, l’evento che ha sconvolto le vite di tutti noi, contemporaneamente così vicino e così lontano.
Lontano, perché questi due anni non torneranno più indietro, persi per sempre tra lockdown forzati, locali chiusi, concerti saltati e progetti di vita rimandati a un “prima o poi”. Così vicino perché poco, se non niente, è cambiato negli ultimi 20 mesi, e tutti gli spiragli di “normalità” non hanno fatto altro che farci ricadere in quello stato tra la disperazione e il disincanto, senza via d’uscita, portandoti a immaginare un domani uguale a oggi.
La situazione per la musica italiana è ormai ben al di là dell’essere critica. Se escludiamo i pochi fortunati che non hanno bisogno di aiuti e sostegni, perché tra comparsate e royalties riescono comunque a mantenere il proprio stile di vita grosso modo inalterato, ormai sempre di più la frattura tra chi lavora nelle tante zone grigie, all’ombra di un settore che volente o nolente è stato incapace di strutturarsi di salvaguardarsi, rischia di compromettere una volta per tutte il ritorno alla presunta normalità.
Nel 2022 concetti come “tour” e “live show” sono non soltanto ripensati, ma per molti professionisti addirittura messi definitivamente in discussione, almeno fino a data da destinarsi, con la prospettiva di vedere sparire tutta la scena dei piccoli e medi live club concreta.
E parlare di “emergenza del settore” è assolutamente ridicolo, visto che non siamo più in una situazione inedita, ma nel nuovo ordine naturale delle cose, che difficilmente cambieranno grazie a un colpo di spugna. No, il cambiamento è qui per rimanere e ci dovremo convivere dei prossimi anni.
Una generazione persa
Quello che mi domando allora è se e come la nuova generazione, quella cosiddetta generazione Z, riuscirà a emergere dallo sconforto di questo momento, privata delle basilari esperienze formative e della possibilità di godere degli artisti dal vivo e di apprezzare la musica non soltanto come artefatto virtuale ma come esperienza diretta. E come i canti di sirena di una certa discografia malata e deviata suggeriscono, l’unica possibilità di salvezza sembra essere tuffarsi nel calderone mainstream, per ripetere gli stessi modelli, ancora e ancora e ancora. Lo scopo è arrivare ad avere successo prima degli altri, essere migliori degli altri, guadagnare più degli altri e occupare gli spazi. Poi, in realtà, nel giro di un paio d’anni passa la musica e passano gli artisti e tutti sembrano dimenticarsi di quei brani che “funzionano”.
Una generazione esposta fin dall’adolescenza a questi scenari, quanto rischia di cambiare il senso e il valore della creazione musicale? Quanti danni si prospettano per dei ragazzi che si ritrovano in dei modelli costruiti soltanto per enfatizzare questa presunta estetica del successo, a discapito di tutto il resto?
La morte dell’alternativa
Andiamo sull’enfatico ed esasperiamo il discorso: davanti ci si prospetta l’orizzonte dell’Armageddon. Già il trend prima della pandemia ci aveva mostrato come sempre di più una nuova generazione di artisti iniziasse ad affacciarsi al panorama musicale già con l’unica intenzione (molto spesso rivendicata) di guadagnare, spaccare il mercato, dominare le classifiche. Perlomeno, a bilanciare queste sbruffonate, rimaneva comunque il mondo alternativo, per quanto rimaneggiato e sospeso: quello appunto dei live club dove scene più o meno grandi, più o meno sensate, più o meno rilevanti e di qualità potevano continuare a esprimersi. Il mondo degli artisti che non devono per forza fare il sold out allo stadio, né investire decine di migliaia di euro in comunicazione, o fare dissing o creare hype autoreferenziale.
Oggi che abbiamo soltanto la possibilità di ascoltare musica in streaming o vederla in televisione, sembra sparita la possibilità alternativa di affacciarsi sul mercato. Se non vieni preso da una Major e non vieni lanciato su Spotify, difficilmente esisti o resisti. Persino Sanremo torna così terra di conquista e non nemico da combattere.
Siamo tornati così in un mondo dominato a televisione, con l’ipocrita idea di pretendere di cambiare il sistema dal di dentro: tutti pronti a tuffarsi dentro Sanremo e i talent show, a cui si sovrappongono le dinamiche impalpabili dei social (come TikTok, nuova frontiera musicale – e pensa un attimo alle conseguenze) e con lo spettro di Spotify come grande burattinaio nella musica italiana, con gli artisti inseriti nel suo “Radar” sparati e lanciati in diffusione estrema in quelle playlist, ormai unico mantra per un’intera generazione che non ha praticamente nessuna intenzione di ascoltare un disco nella sua interezza. E la mesta consapevolezza che non ci sono alternative, in tutti i sensi.
La musica usa e getta
Quanti “se”. Se I live non si fanno più, ma gli artisti arrivano primi in classifica comunque, si prenda ad esempio Blanco. Se gli album non hanno più senso ed esistono solo i singoli. Se i singoli sono sempre più brevi e sempre meno interessanti. Se aumentano interpreti e spariscono gli autori. Se i producer diventano le nuove rockstar, e si riducono in cinque o sei a produrre tutte le tracce di tutti gli artisti. Se tutti questi “se” vengono messi in fila, che cosa rimane? Dove ci troviamo?
Il grande imbroglio di questi anni è stato fingere che fosse cool essere pop, anzi che dovevi essere pop, leggero, facile. Che si poteva comunque dire qualcosa pur realizzando singoli di successo, pur andando incontro al “grande pubblico”. Che sarebbe cambiato proprio il pubblico e non gli artisti. Era questo che la generazione dei musicisti Indie, almeno fino al 2020, sembrava ripetere.
Oggi, invece, il nuovo pop da classifica è innocuo, ammansito. Il disagio generazionale dell’Indie è stato diluito a tal punto da diventare un cliché odioso, per poi sparire quasi definitivamente dalla circolazione. Sparito come la trap, che probabilmente “novità” lo è stata davvero ma solo il tempo di un sospiro e che oggi del suo essere diversa e disturbante ha mantenuto quell’accenno di estetica – la parte più becera – tuffandosi di testa nel pop, dimostrando infine la pochezza artistica di quasi tutti i convertiti, che il pop, semplicemente, non lo sanno fare.
Il piacere di essere mediocri
La musica oggi sembra essere tornata puro elemento di consumo per un’intera generazione di ragazzi. Con la differenza che questa volta il nuovo pubblico del mainstream si sente speciale e rivoluzionario: senza sentirsi in difetto, come almeno un certo tipo di pubblico passivo della TV musicale degli anni 90 e 2000, questi “giovani di oggi” credono di essere pubblico cosciente e attento, senza rendersi conto di quanto siano strumentalizzati da algoritmi e curatori di playlist, il cui unico interesse è lavorare in sinergia con le case discografiche per imporre – scusate, suggerire – determinati ascolti e stimolare determinate tendenze.
Ci deve essere un malsano piacere anche nell’essere mediocri. Nel compiacersi dei numeri, delle vendite e dei soldi, specialmente in un momento in cui ognuna di queste cose ha un senso completamente ribaltato. Ormai parlare di classifiche, di vendite e ascolti è semplicemente ridicolo, se non inutile. Come spesso accade ancora in quella parodia del rap game che abbiamo in Italia, celebrare i propri traguardi economici significa perpetuare un odioso ritornello, in un momento in cui la stessa industria discografica sta cercando di tenersi in piedi con i cerotti.
Il problema è l’atterraggio
“Ok, boomer”, lo accetto. Forse è una mia impressione, forse sto semplicemente invecchiando e tutto quanto di ciò che ho detto è soltanto frustrazione. Ma non riesco a non pensare a questi mesi come il punto più basso mai raggiunto dalla musica italiana. Un baratro dove le canzoni devono durare il tempo di qualche settimana ed essere messe da parte. Dove l’obiettivo è vendere e non provare a creare qualcosa che abbia il benché minimo valore artistico, che possa resistere al tempo, che voglia dire qualcosa. E vedere tutto intorno sparire quel circuito che comunque si opponeva a questo modo di pensare e vivere certa musica usa e getta.
Ecco allora che il peggior pop probabilmente mai ascoltato in Italia negli ultimi vent’anni diventa di nuovo cool.
Ed ecco che gli artisti alternativi e validi o si compromettono alle leggi di mercato, andando via via banalizzandosi e omologandosi, oppure spariscono perché senza live non si può vivere di musica. Un aut aut inquietante e grottesco che sembra la fine di una caduta che non è iniziata negli ultimi due, quanto negli ultimi sette anni, e come ogni caduta il problema è sempre l’atterraggio.
When i get to the bottom
Rimane quel fascino grottesco del godere della decadenza, nell’elogiare la mediocrità dei nuovi protagonisti delle classifiche, per far parte del grande gioco con la speranza di non sparire e di rimanere sempre rilevanti e importanti in questo settore.
Unico comandamento di questa nuova religione: per esistere devi celebrare i nuovi padroni del mercato, con un mezzo sorriso sul volto perché non conviene a nessuno parlare male di nessuno. Che tu sia un artista, un discografico, un giornalista o un addetto stampa, con organizzatore di concerti o un proprietario di un locale, oggi il tuo lavoro non solo è messo in discussione: ti trovi con una pistola puntata in fronte, a cui è stata tolta la sicura, eppure qualcuno continua a prometterti che non c’è niente di cui avere paura. Forse c’è il proiettile e forse no.
Basta seguire le regole perverse di un gioco nauseante. È questo è davvero molto, molto triste.
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