– di Martina Rossato –
Gli Eugenia Post Meridiem sono un gruppo nato nel 2017, dopo mesi di viaggi, quando Eugenia Fera incontra l’esperienza del bassista Matteo Traverso nella musica elettronica, le tendenze psichedeliche del chitarrista e tastierista Giovanni Marini e il profondo amore per il jazz del batterista Matteo Gherardi Vignolo.
Nel 2019 pubblicano il loro primo disco, “In Her Bones”, registrato al Big Snuff Studio di Berlino e pubblicato da Factory Flaws. “like I need a tension” è il loro ultimo album, pubblicato il 18 novembre per Bronson Recordings.
Gli Eugenia Post Meridiem suonano, suonano e suonano. Così facendo, riescono a coprire una vasta gamma di suoni e generi che fa della loro musica un continuo sperimentare.
Hanno da poco girato per l’Italia, portando il loro nuovo disco in tour. Qui sotto la nostra chiacchierata su “like I need a tension”.
Mi incuriosisce molto quel soggetto nel titolo del disco: “I”. Siete un gruppo, un’unica entità, ma qual è la mente dietro ai pezzi?
A differenza del primo disco, questo è stato un lavoro puramente corale. Dopo la quarantena, nel 2020 ci siamo rinchiusi per due settimane in una cascina con tanto di ex stalla in legno e pietra dove abbiamo montato uno studio improvvisato. Lì ognuno ha tirato fuori idee che aveva raccolto nei mesi precedenti e così è nato “like I need a tension”.
Si sente tantissimo che è un lavoro corale, infatti. Ma siete tutti italiani, come mai la scelta di cantare in inglese?
Semplicemente perché l’inglese è una lingua più musicale dell’italiano! La utilizziamo come se fosse un ulteriore strumento e questa cosa ci rende più liberi di giocare e sperimentare.
Si può dire che la vostra band abbia uno spiccato carattere internazionale, e non solo per la lingua. Avete registrato già il primo disco a Berlino. Mi piace immaginarvi lì, di fianco ad Alice Phoebe Lou, ma come siete finiti in Germania?
Che coincidenza! Siamo finiti a registrare a Berlino proprio lavorando con Matteo Pavesi, ex produttore e bassista di Alice Phebe Lou. Eugenia lo conosceva da quando viveva ancora in Italia e, dopo aver sentito qualche nostra demo, è sceso a Genova per fare una piccola pre-produzione. Da lì a due mesi eravamo a Berlino a registrare!
Ma dai! E sempre a proposito di “internazionalità”: per l’ultimo tour avreste dovuto fare tappa anche in Austria e non è la prima volta che suonate all’estero. Notate differenze tra la risposta del pubblico italiano e quello internazionale?
Sì, ma purtroppo la data in Austria alla fine è saltata per cause di salute. Ti rispondiamo sulla base delle esperienze precedenti che abbiamo avuto fuori dall’Italia: qualcosa lo abbiamo notato! Ne abbiamo ancora di strada da fare però, cantando in inglese, è proprio all’estero che puntiamo.
A parte questo, come è andato il tour?
Tutto sommato, bene! Sono stati i primi concerti in cui abbiamo suonato la maggior parte dei pezzi nuovi quindi abbiamo cambiato tanto e sperimentato a ogni concerto. La risposta del pubblico è stata buona ed è stato un crescendo fino alla data di sabato scorso a Ravenna al festival Passatelli in Bronson. È stata una bellissima serata in cui abbiamo condiviso il palco con band validissime.
Ultimissime domande e poi vi lascio liberi: come avete trovato la vostra strada attraverso i vari generi che suonate?
L’unico filo conduttore, quando scriviamo/arrangiamo i brani, è “servire il pezzo”, dare al pezzo ciò di cui ha bisogno senza etichettarlo sotto un genere o un’influenza specifica. Vedi “tiny perspectives”: nessuno di quelli che ci ascoltano si sarebbe aspettato l’autotune sulla voce, e invece è stata una scelta semplicissima e molto spontanea. Il bello è proprio questo, perché è come se il brano si costruisse da solo davanti ai nostri occhi.
E quali sono le vostre (più o meno tiny) perspectives per il futuro?
Suonare, suonare, suonare.