– intervista di Assunta Urbano
foto di Liliana Ricci-
Oggi, mercoledì 8 giugno, si aggiunge un nuovo tassello nella carriera artistica di Black Snake Moan, con la pubblicazione di “Revelation & Vision”, il doppio singolo. I formati in versione digitale e in vinile in 7″ sono targati Dead Music Records e Tufo Rock Records.
Quando ascolti il musicista, la prima immagine che ti viene in mente è quella della terra. Rossa, in cui può penetrare qualsiasi nota. Un’ambientazione simile al Grand Canyon, in Arizona.
Incredibile pensare che dietro alla one man band si nasconda, invece, Marco Contestabile, originario dell’antica e suggestiva terra degli Etruschi.
Il cantante, chitarrista e compositore fa conoscere al pubblico il suo suono caleidoscopico con l’esordio discografico del febbraio 2017 “Spiritual Awakening”. All’album, segue “Phantasmagoria”, nel 2019, qualche mese prima di partire per Memphis, negli States, per l’International Blues Challenge.
Ogni giorno, non mi rendo conto di quanta musica passa per le mie orecchie. Marco mi racconta di essere arrivato a Roma dopo più di un’ora di macchina senza ascoltare nulla. Un dettaglio che accompagna le sue giornate e che, nel mio caso, sarebbe impensabile.
Nel momento in cui Black Snake Moan si catapulta in un nuovo progetto, invece, prima cerca il flusso e si fa trasportare dalle influenze esterne. Poi, ascolta solo ed unicamente ciò che ha registrato, in modo da entrare a trecentosessanta gradi nella sua stessa arte.
Di questo e molto altro abbiamo chiacchierato in un soleggiato tardo pomeriggio romano. Ci siamo incontrati, insieme a Liliana Ricci che ha scattato le foto, a Montesacro, presso uno dei nuovi punti di riferimento musicali della Capitale: DischixFiaschi.
Da oggi, mercoledì 8 giugno, sarà disponibile “Revelation & Vision”. Prima di tutto ti chiedo di catapultarci in questo mondo.
Appena rientrato dai tour di “Phantasmagoria”, c’è stato il lockdown e ho iniziato a fare session infinite e a registrare a casa. Ho fatto una cernita iniziale per un ipotetico album, ma sentivo che non era il giusto formato. Mi volevo dedicare alla produzione di singoli ed era da tanto che sognavo un 7″. In un solo giorno, sono venuti fuori due brani. La scelta è nata dall’esigenza di integrare i singoli. C’è stato un percorso creativo differente, ho cercato di sfruttare più strumenti. Sono molto legato agli anni Sessanta, suonando ciò che sono e vivo, sentivo il bisogno di fare qualcosa di più onirico, che mi riconducesse all’immaginazione e non dovesse essere necessariamente spiegato o avere un senso preciso. “Revelation & Vision”, per me, è la percezione di vivere un presente in costante mutamento.
Dall’universo psych blues in cui ti abbiamo conosciuto nei due album precedenti, ti vediamo in “Revelation & Vision” in un viaggio sonoro, forse più classic rock. Come hanno preso forma qui i suoni?
Non suono sempre ciò che ascolto, ma l’accostamento con il classic rock è coerente. Ero in fissa con il classic folk e con il sunshine pop in quel periodo. Canzoni più leggere, frizzanti, floreali. Avevo necessità di staccarmi dalla sensazione oscura e riflessiva. Avevo bisogno proprio di allegria, spensieratezza e leggerezza. Sono partito dal suono della chitarra a dodici corde. Ho voluto sperimentare. Fare due singoli ti permette di concentrarti e focalizzare la tua attenzione su vari stili. Sono stato ispirato molto dai Byrds, dai Jefferson Airplane, dai Love e da una scena più West Coast.
Forse la peculiarità di questo lavoro è il suo formato. Ci sveli che rapporto hai con il digitale e quale con l’analogico?
Colleziono vinili e sono anche un dj, sono innamorato del formato fisico. Secondo me, il giusto omaggio che un ascoltatore può fare a un artista è acquistare il disco. Sicuramente, con tutti i pro e i contro che ne derivano, il digitale è più comodo. Però, la copia fisica, è tutta un’altra cosa. Ho sempre viaggiato sull’onda di un flusso creativo. “Revelation & Vision” è venuto fuori in maniera diretta e sincera.
Personalmente, credo che la tua musica accompagnata da testi in italiano perderebbe la sua magia. Hai mai pensato o provato a scrivere nella tua lingua madre?
[ride, ndr] C’è stato un momento in cui ci ho provato, sia per gioco che per esperimento. Sembra assurdo, ma la mia musica in italiano risulta grottesca, in una maniera pazzesca. A livello anche semantico, narrativo, mi piace non ricondurre necessariamente a una determinata realtà. Preferisco parlare di pensieri, sogni, visioni. Mi rende più tranquillo e più libero. Ci sono ascoltatori che poi si rispecchiano in modo differente rispetto a ciò che vorrei.
La mia paura con l’italiano, soprattutto per chi è abituato a scrivere in un’altra lingua, è che si cada sotto il personaggio del cantautore. Così, il testo sovrasta la musica, che perde quasi la sua importanza.
Farei più un disco noise o sperimentale in italiano. A volte ho provato a creare delle versioni alternative in italiano, ma non mi sento veramente me stesso e a mio agio.
Nonostante ciò, però, le canzoni risentono molto delle tue radici. Che rapporto hai con la terra d’origine e quanto incide nel processo artistico?
È fondamentale. Ho rifiutato tante proposte di vivere in città. Sono legato alla collina e al mare. È importante viaggiare nei posti in cui mi sento davvero a casa. A partire dalle infinite passeggiate in campagna, fino agli scogli oppure il centro storico all’alba. Una sorta di mio posto segreto. Sono affezionato alla mia terra, perché è ricca di storia. Gli Etruschi hanno dettato le basi per l’evoluzione della società.
Come si mescolano questi luoghi con l’immagine del deserto?
Succede spesso di vedere campi infiniti di terra bruciata. Vivo a pochi chilometri dal mare, ho vissuto lì la mia infanzia. Mi piace l’idea del miraggio che si allontana sempre di più. È un po’ come la consapevolezza di tendere sempre oltre ai propri obiettivi. È la motivazione per cui non mi stanco mai di fare una ricerca, personale, emotiva, narrativa. In questo caso, mi sento come in una seconda rinascita, dovuta a determinate cose che hanno compromesso la mia vita. Non sono casuali i due titoli del lavoro. Il deserto lo vedo come nascita e morte. Nella natura mi sembra di trovare delle risposte.
Immaginando uno scenario dove vorresti portare “Revelation & Vision”, quale sarebbe?
Sarebbe troppo semplice se ti rispondessi una chiesa sconsacrata, ma anche una caverna. L’importante è che sia estremamente roccioso. Penso a un deserto americano, colline assolate o anche al Grand Canyon.
«Losing my mind, follow the vision in the desert» di “Vision”, il lato B, è la frase più rappresentativa di questo progetto, in cui ti sei perso e ritrovato. Si segue il flusso, come era accaduto con “Phantasmagoria”. Ripercorrendo questo percorso musicale, a che tappa professionale e artistica è arrivato oggi Black Snake Moan?
Che domanda questa! Penso che non riuscirò mai a trovare un ruolo, un livello, per sentirmi realizzato. Forse, quando e se smetterò di fare musica, sarà perché avrò trovato un’altra collocazione. Mi piace immaginare il mio flusso creativo come un’esigenza. Suono ciò che sono. Sarebbe bello lavorare anche nella produzione in uno studio di registrazione. Oggi non so dove mi sento, ma finché ha a che fare con la musica, per me va bene. Basta che ci sia un messaggio originale e autentico da trasmettere. È difficile fare musica sincera, in questo periodo storico.
La domanda di Liliana: parlando di autenticità, mi chiedo spesso e in generale, a chi pensi di rivolgerti quando scrivi musica? Dal lato espressivo, a che bisogno delle persone risponde?
Non ho un pubblico preciso, sarebbe bello averne uno internazionale. Credo di rivolgermi agli emarginati. La mia arte è per persone che hanno un’idea precisa e che mettono a fuoco alcuni dettagli. Spesso penso di fare musica per persone libere, soprattutto libere di esserlo e non perché si sentono tali. Vorrei dare un biglietto a qualcuno per farsi un viaggio particolare e lasciarsi andare. Vediamo, poi magari ci incontriamo nel futuro.