Avevamo lasciato la grande produzione di Manuel Volpe con un disco prezioso come “Albore”. Oggi torna ma mette in prima linea il nome della sua Rhabdomantic Orchestra dentro cui svetta la voce della cantante e musicista colombiana Maria Mallol Moya. Orchestrazione, mondo digitale, la fusion intesa dentro cui rintracciare un significato alto di questa parola. Incontro di culture che dai ritmi africani cercano anche le forme occidentali, industriali, il pensiero pop si polverizza dentro meravigliose partitore di un sentire che non ha tempo, non ha geografia e soprattutto non ha un solo piano di lettura. Disponibile anche in vinile, “Almagre” è l’ennesima dimostrazione del grande valore compositivo ed estetico di Manuel Volpe.
Collettivo. Una parola che oggi più che mai ti appartiene. Che cosa cerchi e cosa hai trovato dentro questa parola e dentro questo modo di pensare alla musica?
Per arrivare a questa forma ho impiegato il tempo di 3 album. Il primo uscì a mio nome ma già avevano partecipato numerosi musicisti e sul palco eravamo in sei. Nel secondo decisi di dare un’identità all’insieme di amici che mi affiancavano e fu pubblicato come Manuel Volpe & Rhabdomantic Orchestra. Oggi sento di volermi unire il più possibile a loro, di vivere la mia musica all’interno di una famiglia che negli anni ha visto passare più di 30 musicisti e musiciste. Ogniuno a suo modo ha contribuito allo sviluppo del suono che avevo in mente e allo stesso tempo sono loro ad ispirare ciò che scrivo. Quindi per rispondere alla tua domanda, dentro la forma del collettivo ho trovato la possibilità di crescere come artista mettendomi in gioco in ogni occasione e di riconoscere come ciò che scrivo è più bello quando passa attraverso la sensibilità di un altro.
Nelle tante derive spirituali e umane che hanno collaborato al suono del disco c’è Maria Mallol Moya come punto fermo. Come mai questa scelta?
Maria è un artista incredibile capace di spaziare da un genere ad un altro mantenendo intatta la sua personalità e magnetismo. Quando avevo iniziato a scivere “Almagre” volevo evocare un mondo surreale con la bussola puntata da qualche parte tra il mediterraneo e il Sud America e sapevo che lei sarebbe stata la scelta perfetta.
Il rosso dell’ossido di ferro. Mi porta all’immaginazione un concetto di trasformazione, di usura, di decadimento. E invece…?
Esatto! Il rosso porta con se sensi e metafore contrastanti: è il colore del sangue che è vita e morte, il colore che associamo alla rabbia, all’amore, la passione. Per questo descrive perfettamente questo album che ha come obbiettivo la ricerca di un’armonizzazione tra elementi in continuo contrasto.
Bellissimo il video di “Suffer! Suffer!” diretto da Matteo Cozzo (The Great Paper Massacre). Eppure qui, al posto dell’Africa e della spiritualità, penso molto al sapore italiano degli anni ’70… che ne pensi?
Non saprei, forse l’idea di un inseguimento riporta alla mente un certo tipo di cinema quindi è un accostamento azzeccato. “Suffer! Suffer!” è il brano più deliberatamente politico che parte da una riflessione sulla condizione universale di vessazione che ci vede tutti vittime delle scelte e degli interessi di pochi che si riflettono sulla sofferenza di molti. Nonostante il tema sembri terreno e mondano, in realtà ha anch’esso il suo senso nella spiritualità intesa come ricerca del miglioramento individuale.
E ritornando alla parola iniziale, penso anche molto a questo disco come una rinascita dalle tante distanze di questo tempo assurdo… è così in qualche modo?
La musica è veicolo di socialità ed espressione identitaria di una comunità. Nel riappropriarci degli spazi della fruizione di quest’arte ci riappropriamo anche di ciò che ci definisce e ci fa sentire meno soli. I festival, i teatri, il ballo… Quindi ogni disco o tour che sta accadendo in questo momento contribuisce a questa rinascita.