Per restare su ciò che merita di finire in una canzone, spesso si sente dire che la musica di oggi, ad esempio la trap, non ha contenuto, o comunque che ha un contenuto basso, di poco rilievo, “sbagliato”- Che cosa ne pensi?
Di sicuro si tratta di un linguaggio contemporaneo. Forse è destinato ad avere un suo tempo, come la emo. Non l’ho neanche studiata, per adesso, perché sono sonorità che non mi attraggono, non ho mai approfondito. È una scintilla che in me non si è accesa. Mi rendo conto che può rappresentare una generazione di adolescenti, che sbarella per questo tipo di musica, ma non mi appartiene. Secondo una certa filosofia di pensiero i numeri hanno sempre ragione; a me piace quello che emoziona. È un altro mondo.
Tra le altre cose sei anche autore di brani per altri artisti e ultimamente il ghostwriting è piuttosto valorizzato, quindi ci sono figure di spicco, ad esempio Tommaso Paradiso o Calcutta, che scrivono brani per altri artisti e questo viene messo in primo piano. Che differenza c’è tra la scrittura per sé e quella da autore per qualcun altro?
Mi è capitato e magari potrebbe anche ricapitare. In questo periodo sono focalizzato sul mio lavoro, sul disco e tutto il resto. Preferisco considerarmi un musicista e mi piace la possibilità di scrivere insieme ad altri, perché alla fine diventa una partita di ping pong e la tua concezione di qualcosa, col confronto, cambia. Quando scrivi per qualcun altro, se è una commissione, studiando il profilo sai bene dove andare. Può essere diverso dalla tua volontà e dalla tua necessità espressiva, rispetto a scrivere una canzone che ameresti cantare. Poi c’è la possibilità che una canzone che hai scritto per te venga proposta a qualcuno e se è un interprete che ti piace ben venga. È bello non avere paletti.
Le tue ultime canzoni sono state inserite in varie playlist indie. Ti ritrovi in quest’etichetta?
Se una canzone finisce in una playlist, qualcuno l’ascolta e si emoziona si tratta di una grande fortuna. È un privilegio essere letto come un attore della contemporaneità. Il lavoro fatto sul disco aveva come “ingredienti della ricetta” sia le cose con cui sono cresciuto, più vicine al cantautorato, sia ciò che apprezzo della musica di oggi, perché siamo spugne, assorbiamo ciò che ascoltiamo. Questa nuova generazione ha come capitani, se vuoi, Brunori da una parte e Calcutta dall’altra: nella fetta in mezzo mi ci tuffo con molto piacere. Esserci va bene, vuol dire essere nel 2019 e raccontare le mie storie a qualcuno che le ascolta. Apprezzo molto la canzone italiana di oggi e sarebbe figo fare qualcosa con i Coma_Cose.
Da Giganti in poi si è aperta una nuova fase creativa della tua produzione. Che cosa le ha dato il via?
Giganti ha avuto una lunga gestazione. L’estate che ho iniziato a scriverla girava in radio Dedicato a chi, il mio primo singolo per Universal. In quel periodo mi sono confrontato con esigenze diverse dalle mie, con sofferenza. Non c’è libertà se quello che scrivi non è ciò che vuole chi ti produce. È un lavoro che comunque rispetto, l’ho sperimentato in quel periodo della mia vita e mi è servito per riavere la serenità necessaria a scrivere canzoni che in passato non avevano chi le sostenesse. A un certo punto sono riuscito a diventare autonomo, a mettere insieme le canzoni e a registrare l’album confrontandomi solo con pochissime persone: il filtro principale era la mia percezione. Se sta per uscire il disco vuol dire che è andato tutto bene.
PS: Saluto Lelio e lo staff e faccio per andarmene, ma loro mi fermano e m’invitano a restare alla festa per l’uscita del disco, assicurandomi che la genovese di Lelio è qualcosa di speciale. Io rispondo che sono vegetariano, ma accetto volentieri l’invito… Hanno birre e patatine in gran quantità.