– di Manuela Poidomani
e Giacomo Daneluzzo –
Il cantautore Marco Zitelli, in arte Wrongonyou, in occasione dell’uscita del suo nuovo singolo, dal titolo Lezioni di volo (per Carosello Records), che è stato presentato ad AmaSanremo, ha tenuto una conferenza stampa, ovviamente a distanza, visto il periodo. Con Lezioni di volo l’artista è arrivato alle finali di AmaSanremo: è molto vicina, quindi, la possibilità di partecipare al 71° Festival di Sanremo. Durante la conferenza stampa si è parlato di Sanremo, dei live, del nuovo singolo, della sua esperienza con Gigi Proietti, con cui ha lavorato alla produzione del film diretto da Vittorio Gassman Il Premio (2017), di molto altro.
Ciao Marco! Come sta andando ad AmaSanremo?
Bene! È un mondo tutto nuovo, è la mia prima esperienza televisiva. Mi trovo bene, sono ritmi intensi e va tutto molto veloce, però è forte. La mia fobia, in diretta, è cadere: già al Primo Maggio avevo questa paura di cadere con la faccia per terra e di diventare un meme. Mi fa molto più paura di stonare. Poi il mio nuovo pezzo si chiama anche Lezioni di volo, quindi se cado faccio proprio il botto…
Be’, sarebbe anche coerente…
Adesso se cado è colpa tua (ride, ndr).
Sono sicuro che non cadrai e andrà tutto bene. Quando ti è venuta l’idea di partecipare ad AmaSanremo?
Era da un po’ che volevo andarci, solo che non era il momento. Durante il lockdown ho canalizzato i pensieri intorno a questo, alla fine è successo. Non sarei stato in grado, negli anni precedenti, stavo ancora cercando la mia “voce” in italiano: ora mi piace molto di più come canto ed è il momento giusto. Da parte della casa discografica e del management c’è stato subito un grande entusiasmo e adesso stiamo andando a tutta velocità.
A febbraio c’è stato il tuo ultimo concerto, alla Santeria di Milano…
Quel concerto non me lo stavo godendo al massimo: avevo trentanove di febbre, forse ero io il paziente zero (ride, ndr), Però è stata una bellissima serata, sono stato davvero contento.
Lezioni di volo è “sanremese” dal punto di vista lirico e musicalmente molto innovativo. Pensi che sia il tuo asso nella manica?
Sarebbe uscita comunque, a prescindere da Sanremo. Non è una canzone ricercata, è nata in modo molto spontaneo e quando abbiamo deciso di portarla era al 99% già chiusa. Ci sono stati solo dei miglioramenti, che ci sarebbero stati comunque, per renderla un po’ più matura. Le cose sincere e spontanee arrivano in modo più diretto, è meglio togliere i filtri: ho scritto Mi sbaglio da un po’ in inglese e l’ho tradotta in italiano: alla fine è il pezzo del disco che è andato meglio. Con la spontaneità funziona tutto molto meglio.
Ti va di raccontarci qualcosa sulla tua esperienza con Gigi Proietti?
La notizia della sua morte mi ha fatto malissimo. L’ho saputo da mia madre, che alle sette di mattina mi ha urlato: “Marco, è morto Gigi!”, con il massimo tatto… È una figura mitologica, non riesci ad associarlo alla morte, pensi che resterà sulla Terra all’infinito. Mi ha regalato un sacco di cose senza chiedere niente in cambio. Io e mio nonno materno Bruno, a cui sono sempre stato molto legato, guardavamo insieme tutti i suoi spettacoli e tutte le sue apparizioni televisive: è stato molto interessante quando si sono conosciuti alla prima del film. Mio nonno, a cui ero molto affezionato e che era una figura quasi paterna per me, è morto il giorno del mio compleanno: quando ho chiamato “nonno” Proietti, per il film, è stata come la chiusura di un cerchio. Gliel’ho raccontato ed è stato molto contento. Si è affezionato a me, per lui ero come un nipotino, tutte le sere mi chiamava dalla camera d’albergo e diceva: “Marco, andiamo a mangiare qualcosa!” e a cena mi raccontava storie su Vittorio Gassman, Troisi, De Filippo… Mi ha dato anche consigli su come approcciarsi al pubblico e diceva di non fare mai domande ai romani – perché hanno sempre la risposta pronta. Al mio primo concerto a Roma ho detto, al microfono: “Com’è?” e subito, in un secondo, dalla prima fila arriva la risposta: “Ce lo devi di’ te!”. Proietti era un vero uomo di spettacolo, non si lamentava mai ed era super professionale. Aveva sessantotto anni quando ha girato il film e non ha mai chiesto niente, con un’unica eccezione: nella scena del discorso finale ha chiesto a Gassman se gli avrebbe inquadrato i piedi; Gassman ha detto di no, quindi Proietti ha chiesto di poter tenere le ciabatte, ché era più comodo. Fino alle tre di notte stavamo nella sala fumatori a fumare, beveva vodka liscia e non si ubriacava mai; il giorno dopo mi diceva: “Marco, ho un bruciore di stomaco…” E te credo! Potrei parlare di lui e di quei mesi per ore: è stata una grande fortuna, oltre che un sogno che si è realizzato. Mi sono sempre chiesto, prima, se l’avrei mai incontrato, se sarei mai riuscito a farmi una foto con lui. La prima sera che abbiamo passato insieme mi ha detto: “Dicono tutti che sei bravissimo, cantami una canzone”. È stato così attento alla canzone che la sigaretta che stava fumando è diventata tutta cenere, non ha fatto neanche un tiro. Mi ha applaudito, mi ha preso la mano e mi ha detto: “Sei unico nel tuo genere, sei eccezionale”. Io mi sono sciolto e sono corso in bagno a piangere.
Ti ha dato consigli anche in ambito musicale?
Mi ha detto solo di essere semplice, diretto. La spontaneità è da preservare: un bambino nasce puro e la sua spontaneità viene intaccata, così si crea un’armatura. Più si va al cuore di quello che si dice più tutto risulta reale; e arriva anche più risposta, perché arriva di più.
Quali sono i tuoi punti di riferimento per la tua svolta artistica in lingua italiana? C’è qualche canzone di Sanremo che ti ricorda qualcosa in particolare?
Non ascolto molta musica italiana: dal punto di vista della scrittura Dalla, De Gregori e Battisti sono però un “tridente implacabile”, li ascolto molto e so tutte le loro canzoni a memoria. Cerco sempre di prendere ispirazione soprattutto dall’estero. Ultimamente ascolto molto Dominic Fike. Per quanto riguarda la canzone di Sanremo ho pensato subito a L’uomo volante di Marco Masini, che è uscita quando avevo tredici anni e con cui ha vinto: l’associavo a Shaman King, anime di cui Masini cantava la sigla. Quando ho conosciuto Masini gliel’ho detto e ha risposto: “Guarda, lascia stare…” e se n’è andato. Un altro brano di Sanremo che mi è rimasto è Chiamami ancora amore di Vecchioni; anche questa ha vinto, nel 2011.
Lezioni di volo è un invito a sentirsi liberi e lasciarsi andare. C’è qualche momento della tua carriera in cui avresti voluto lasciarti andare di più?
Nel disco precedente non mi sono lasciato andare come sto facendo adesso. Quando un italiano canta in inglese è sempre perché un po’ si vergogna. Dire le stesse cose in italiano ti fa pensare: “Certo che i dARI avevano proprio un bel fegato!” (ride, ndr). Il primo giorno che ho fatto una session di scrittura in italiano, con l’autore Andrea Bonomo, non mi usciva la voce perché mi vergognavo. Pian piano però mi sono abituato e ora è da tanto che non scrivo in inglese: ci ho preso gusto. È un imbarazzo che sparisce pian piano; come per il falsetto: mi vergognavo da morire con Killer, che però adesso è il mio pezzo con più ascolti. Ho sconfitto l’imbarazzo al punto di andare in diretta su Rai 1. Il prossimo disco sarà molto più sciolto dei miei lavori precedenti.
Secondo te come mai t’imbarazzi con l’inglese? È una lingua compresa da molto più persone, cantare in inglese ti mette di fronte a una fetta molto più ampia di popolazione umana con cui interfacciarti. Secondo te come mai ti senti più scoperto con l’italiano?
Penso che sia perché non penso tanto al “prossimo” che mi ascolta, quanto a me stesso. Mi auto-imbarazzavo. Il mio inglese era molto masticato, sia per le mie influenze dal reggae, sia perché è una lingua che ho imparato in Georgia, in cui l’inglese è così. Il mio inglese non si capiva neanche troppo bene: era proprio uno scudo. Killer finì nella playlist Music Friday senza che nessuno me l’avesse chiesto e gli ascolti venivano, in quest’ordine, da queste città: Los Angeles, New York, Chicago… e va be’, poi Ferrara. Però non so perché. È una domanda giusta, perché è verissimo, l’inglese lo parlano tutti; per me era uno specchio, il mio interlocutore ero io stesso.
Il tuo nome è tra i più caldi di Sanremo, anche perché hai una grande produzione artistica alle spalle: hai fatto molto. Questa una spinta o un peso?
Volevo farmi biondo per Sanremo (ride, ndr). Sanremo non è un punto d’arrivo, è una tappa del mio percorso. Sono due anni che giro il modno come un matto, ora sono tornato in Italia e tutto questo è un viaggio. Sono molto grato di aver girato il mondo (gratis!) con la mia musica, era già questo un sogno che si realizzava. Per il pubblico medio di Rai 1 sono uno sconosciuto; non ho in testa di dover vincere, ma più di fare un’esperienza nuova, quella di una trasmissione televisiva. Ho un po’ d’ansia, ma penso di essere allo stesso livello degli altri. Sarà fondamentale il televoto: devi piacere a un pubblico che non ti conosce. Fino ad ora sono contento dei riscontri molto positivi che ho ricevuto. Sto contando soprattutto sulle performance: chercherò di fare il meglio possibile, sperando che il messaggio si capisca.
In Lezioni di volo dici che hai imparato a volare. La lingua italiana ti ha aiutato a conoscere meglio te stesso?
Sicuramente sì. Togliendo l’inglese ho davvero tolto uno scudo. La musica arriva in modo diverso anche a me stesso. Per me l’italiano è ancora una cosa nuova: io sono cresciuto con mia madre fan di Ben Harper e Tracy Chapman e mio padre fan di Bruce Springsteen. Non ho mai ascoltato musica italiana. Sul pullman non cantavo mai gli 883 con gli altri. Ho conosciuto Max Pezzali – siamo nati lo stesso giorno e ci siamo fatti gli auguri – e mi ha detto che super fan: sono rimasto a bocca aperta. La musica italiana è sempre nuova, trovo sempre cose nuove. E poi dico solo che ho imparato a volare, ma appena volo davvero ve lo faccio sapere.