– di Angelo Andrea Vegliante –
Trasformismo, carisma, physique du rôle da artista e tanto, ma tanto, coraggio. In due parole, Achille Lauro. L’artista che, per la seconda volta, e anche di fila, ha fatto parlare di sé a ogni serata del Festival di Sanremo. Come l’anno scorso, stavolta soppiantando anche le polemiche nate attorno a Junior Cally, quasi fosse un ricordo lontano inventato dai Maya per augurarci la fine del mondo. Insomma, Lauro de Marinis si è preso nuovamente la scena, mettendo in gioco ancora di più il proprio corpo in un palcoscenico che chiama a raccolta numerose tipologie di pubblico – mai come quest’anno.
Tuttavia, c’è un grosso ‘Tuttavia’ da scrivere. Perché, per quanto Achille Lauro possa sembrare rivoluzionario in questo, in realtà non si sta inventando niente di nuovo. Ma, purtroppo, è solo figlio dei tempi marci che stiamo attraversando, dove ogni concetto relativo alla cultura del diverso fa scalpore. Cioè, se ti mostri fuori ‘da un certo ordinario’ (che poi qualcuno, magari una divinità bicefala, ci dovrà spiegare la differenza da cos’è ordinario e cosa no), allora sei sovversivo. Un’affermazione che risulta contraddittoria, in quanto mostra proprio le fragilità rivoluzionarie su cui dovrebbe poggiarsi una società civile.
Una riprova di tutto ciò l’abbiamo nell’interesse mediatico generato l’indomani della nascita del reato di omofobia in Svizzera. Come fosse una questione lontana anni luce da noi, civile a livello umano e rivoluzionaria nell’accezione didascalica del termine. E arriva, oltretutto, a pochi giorni dal bacio tra Achille Lauro e Boss Doms, che molti hanno addirittura etichettato come blasfemo. Insomma, come fa una cosa a essere controcorrente se viviamo in un contesto che, invece di andare avanti, procede da diversi anni ‘un passo indietro’ verso un inesorabile baratro culturale?
Più che un eversivo, Achille Lauro è uno degli ultimi appigli su cui aggrapparsi per restare lucidi umanamente. Perché, c’è da ricordarlo, il trasformismo (socio-culturale) non è di sua invenzione. Solo vent’anni fa la gente si lamentava copiosamente degli atteggiamenti stilistici di un certo Renato Zero, tacciandoli con epiteti al limite dell’omofobia. Anche lì, tutti a giudicarlo come un rivoluzionario, qualcosa di ampiamente e stilisticamente diverso dai canoni nostrani. Lo era? Forse, perché quelli erano i veri anni in cui certi temi stavano sbocciando, e serviva qualcuno che imbracciasse certe questioni. Oggi, invece, siamo pieni di figure che prendono posizione, ed è un bene. Ma bisognerebbe anche andare nei fatti, perché prima o poi gli anni del cambiamento dovrebbero essere messi in campo, e non solo sbandierati – come avviene da non si sa quanto tempo. Cioè, bisogna fare ‘un passo in avanti’, lasciando fare all’arte quello che gli pare.
Invece cosa raccontano i fatti? Didascalicamente, c’è un parte di pubblico italiano che si aspetta costumi ingessati sul palco dell’Ariston, quelle giacche e quelle cravatte che fanno tanto ‘uomo di mondo’ e su cui non bisogna mai sbavare. Anche perché, oh, quelli strani sono gli artisti dell’Eurovision Contest provenienti dagli altri paesi, che si vestono in modo abbastanza ‘ilare’ e ‘ridicolo’, ma su cui nessuno all’estero osa mai questionare. Perché, di fatto, criticare a livello culturale la scelta artistica di un personaggio che, per campare, fa arte, è come andare da Leonardo Da Vinci e dirgli che l’Uomo vitruviano andava realizzato coi gessetti colorati. Insomma, c’è sempre un limite nel quale finisce la critica e inizia il gusto del dare fiato alle parole.
Per questa stessa assenza di comprendere i propri limiti critici, gli stessi hater non sono originali, ma solo figli di una modernità che vuole ogni individuo come un unicum, a enfatizzare un cameratismo umano – buono per tornaconti personali – che fa ribrezzo al solo pensiero. Achille Lauro, come Renato Zero, non è primo e né l’ultimo che mette in gioco il proprio corpo a livello artistico per farne un quadro. Ad esempio, c’è una tradizione di artisti che usa le maschere come ‘arma da scena’. Eppure, al netto delle critiche condivisibili, c’è sempre chi fa dell’intolleranza ingiustificata un pensiero unico, soprattutto in un paese come il nostro a grande trazione cattolica (che si esprime più alla superficie).
Il fatto che Achille Lauro risulti ‘il nuovo che avanza’ in questi termini genera particolare apprensione. Non tanto per l’artista, consapevole dei tempi nei quali corriamo, dei propri mezzi e di quale sia il modo migliore per esprimere la propria arte, e da cui ci si aspetta nuovi attacchi d’arte, ma per il contesto che lo circonda. Probabilmente, lui stesso vorrebbe semplicemente fare il cazzo che gli pare, al grido di “Me ne frego”, senza dover poi giustificare al prossimo ogni cosa che fa artisticamente. Eppure, oggi, l’uomo moderno vuole solo mangiare sulla carcasse delle idee, osservare e giudicare, attraverso un finto monocolo, un quadro che, magari, non sta raccontando nulla di nuovo per i tempi attuali.
E allora, cos’è Achille Lauro? Un grande stand-up comedian, in grado di concentrare una fetta di pubblico mediocre su questioni mediocri, mettendo in luce questa loro mediocrità. Perché, ancora una volta, diversi ‘critici’ hanno evitato di guardare la luna, invece del dito che la indica. E questo non è sintomo di rivoluzione, ma di estrema povertà concettuale.