– di Veronica Proia –
Un vento islandese ha portato alla luce un progetto che cresce lungo il confine tra esotismo e tradizione. Blindur nasce come power duo nel 2014, solca palchi internazionali, colleziona premi e si veste oggi di una nuova composizione. A due anni di distanza dal disco di esordio può vantare la collaborazione di artisti come JT Bates, Adriano Viterbini e Birgir Jón Birgisson (fonico e produttore dei Sigur Rós).
“A” è il nuovo album di Massimo De Vita, uscito il 19 aprile per La Tempesta Dischi. Una lettera in corsivo minuscolo come amuleto per un lungo viaggio.
Partiamo dalle fondamenta di questo lavoro che, se ho capito bene, parla di ombre e di luci, di paura e coraggio, di morte e rinascita… Come si racchiude tutto questo all’interno di una singola lettera, che costituisce il titolo dell’album?
C’è una storia che vale la pena raccontare a tal proposito. Tra i miei 7 e 8 anni ho subito un incidente, da quel momento, per circa dieci anni, non ho più scritto su carta. Quando ho ricominciato, avendo perso la manualità, ovviamente il risultato era disastroso: quaderni con lettere al contrario, tentativi di recuperare una simbologia che apparteneva quasi ad una vita precedente. In questo processo il corsivo era totalmente scomparso. Quando ho ritrovato questi simboli, al limite del disegno, è come se fossi uscito da me stesso e mi fossi guardato dall’esterno, mi sono venuti in mente ricordi che pensavo di non avere, si sono riaperte ferite lontane. Tutta questa esperienza così violenta e potente mi ha dato la possibilità di rivalutare cose personali che mi è sembrato doveroso sintetizzare in una lettera in corsivo.
Sembra come se la A rappresentasse anche un nuovo punto di partenza, la prima lettera dell’alfabeto, rinascere dal principio.
Si, fa parte poi di un linguaggio comprensibile a tutti, un simbolo universale, tanto da mettere sul piano orizzontale questa esperienza che è mia ma può diventare di tutti. Una lettera che si trasforma quasi in un sigillo per me, come augurare “buon viaggio” a qualcuno, anzi a tutti.
Ti ritrovi in una formazione diversa rispetto a quella che caratterizzava l’esordio dei Blindur. Come questa cosa ha influenzato il processo di costruzione del nuovo lavoro?
L’idea della band era già in cantiere anche quando eravamo in due, ci ha sempre solleticati il poterci rimettere in gioco con altri suoni. Diciamo poi che la pausa forzata che ha preso Michelangelo ha fatto si che la band diventasse quasi una necessità. Il cambiamento porta agitazione e paura ma l’idea di ripartire da capo, anche ri-arrangiare brani vecchi, doversi reinventare, è qualcosa che rimette in moto tutti i sensi. Il disco quindi risente di questa influenza perché non si è ragionato in maniera molto geometrica, come accadeva quando eravamo in due (in quel caso dovevamo dividerci ad esempio la parte ritmica, ma ora avendo un vero batterista possiamo permetterci altre libertà).
A proposito di batteria, JT Bates non è proprio un batterista qualunque, mi viene in mente Bon Iver e i Big Red Machine.
Si esatto, ci siamo incrociati ad un festival lo scorso agosto a Berlino, io ero ospite di Damien Rice, in quella circostanza gli chiesi candidamente se voleva fare qualcosa insieme, e lui subito ha acconsentito, questo è stato davvero un valore aggiunto.
Devo dirti che infatti è molto forte il respiro internazionale, riesce a convivere però con i sapori tradizionali legati alla tua terra di provenienza. Com’è il rapporto tra questo esotismo e la tua regione?
Per assurdo mi sento più italiano quando sono all’estero. Una specie di capacità nel capovolgere lo stereotipo, sono convinto della paternità della forma canzone, del fatto che ci portiamo il peso di una tradizione musicale che vale la pena valorizzare. Ho una grande ammirazione per la canzone classica che trovo molto complessa, subisco il fascino del dialetto antico per i suoi suoni. Personalmente ho poca dimestichezza nel cantare in napoletano, mi fa sentire un po’ un animale strano perché ho paura di cadere in quei luoghi comuni. Nel disco l’unico napoletano citato è Massimo Troisi perché precisamente racchiude tutto il bello di questa cultura: una immagine triste nella sua comicità, che rappresenta proprio il capovolgimento del napoletano tipo.
Utilizzo l’immagine che hai descritto di questa comicità triste per legarmi ad una tendenza che ho trovato nei testi di “A”, cioè quella di dividere tutto in binomi antitetici: buoni e cattivi, luci e ombre, felici e infelici, silenzio e rumore… Questo binarismo di pensiero racchiude una tua visione di mondo?
Mi piacciono molto i confini delle cose, cioè dove le cose si toccano. Inevitabilmente per individuare quel punto preciso devi conoscere le due metà. Quella zona grigia fra il bianco e nero è precisamente ciò che mi interessa, il luogo che mi piace esplorare. Un po’ è una cifra generazionale visto il momento caotico che attraversiamo, dove non sappiamo bene da che parte sederci, o se siamo troppo grandi per fare i bambini o troppo piccoli per farei i grandi. Proprio lì è dove ho messo il dito cercando di scavare. In questo mischiarsi di correnti c’è una parte viva che sanguina e suda, dove le acque si incontrano e generano una turbolenza da cui esce il vero.
Un po’ ambivalente, nei testi, l’ossessione per la felicità…
A me questa cosa che si debba essere felici per forza non piace affatto, non perché io sia triste.
Il disco ha toni oscuri che sono parte di me, allo stesso tempo mi sembra una follia questo inseguimento continuo. Come dico in “Ansia”, il dover trovare per forza il meglio, questa rincorsa da cui si pretende sempre di più e non è mai abbastanza: mi sembrano tutte declinazioni di un individualismo aggressivo che alla fine ti crea intorno una grande solitudine e non ti fa dormire la notte.
Come sono stati scelti i due singoli “Invisibile agli occhi” e “Futuro presente”?
Invisibile agli occhi nella sua totalità e nell’atmosfera mi sembrava potesse suonare diversa da quello che c’era stato prima e quindi potesse costituire in qualche modo uno spartiacque.
Anche per i testi, io lavoro maniacalmente sui testi e cerco di non sprecare mai le parole e non tralasciare nessuna sensazione, e questo lavoro lo ritrovo in questi due pezzi. Cristallizzare una emozione e tradurla. Invisibile agli occhi e Futuro presente le ho scritte in un momento tosto, in cui ci tenevo a dire che non è vero che sognare non costa niente. Mi sembrava doveroso restituire alla nostra generazione, che viene dipinta come una generazione di sognatori fancazzisti, il peso che si portano dietro.
Anche sul piano strumentale c’è una tradizione esotica, si può dire? Cioè una presenza del passato che si coniuga con dei sapori nuovo.
La tua sensazione è assolutamente corretta, alcuni ascolti per me rimangono imprescindibili: i National, Sigur Rós, Arcade Fire, sono riferimenti che in qualche modo ritornano anche se involontariamente, avendoli digeriti a lungo. Allo stesso tempo ho fatto tanti ascolti che non diresti mai, come Lil peep, per dire, o Niccolò Fabi.
Ci sono un po’ di date adesso per presentare questo album giusto? Quali sono le aspettative?
Siamo partiti il 27 aprile con un primo giro che si chiude il 7 giugno a Roma. Diciamo che Blindur è sempre stato un progetto che ha suonato tanto quindi l’aspettativa è quella proprio di portarlo in giro e suonare, resto uno di quelli legati al furgone. Mi auguro di non dovermi porre il problema di dove andare in vacanza questa estate.
Chiuderei con una domanda a cui potresti anche non avere risposta. Oggi è diventato frequente il discorso sulla categoria musicale di appartenenza, come se fosse necessario definirsi e riporsi in un luogo preciso, come se la musica fosse divisa in scompartimenti. C’è un posto in cui tu ti collochi all’interno di questo scenario? (O al di fuori?)
Questa domanda mi sta particolarmente a cuore. Penso ci sia una grande confusione formale, le parole hanno cambiato di significato, è arrivato il momento di recuperarne alcune che sono scomparse e non avere paura di dirlo. Non penso, ad esempio, che pop sia una parolaccia. La cosa drammatica è che se pensavo alla parola indie qualche anno fa mi venivano in mente gruppi come i Local Natives e mi sembrava una parola meravigliosa. A me piace la musica alternativa e l’alternative è dove Blindur si trova a suo agio.