Il settimo album di Coez non è un inno generazionale, solo un filo diretto tra adolescenza e consapevolezza
di Rossella Vianello
Con “1998″, il suo settimo album in studio, Coez firma un ritorno alle sonorità pop che l’hanno fatto conoscere, ma con una nuova consapevolezza, quella di chi ha attraversato gli anni facendone un bagaglio ricco di esperienza e qualche rimpianto. È un disco intimo, malinconico e coerente, che guarda agli anni Novanta non tanto per estetica, quanto per radici emotive autobiografiche, un viaggio che ti fa oscillare tra i sedici e i trent’anni.Coez si racconta, crea un filo diretto tra l’adolescenza e la consapevolezza adulta, la celebra senza idealizzarla, la rimpiange senza farne un dramma ma una schietta costatazione di qualcosa che non c’è più.
L’album si apre come un taccuino musicale: chitarre acustiche che sussurrano, pianoforti lievi, bassi rotondi e qualche eco di elettronica che accarezza senza invadere. L’utilizzo attento dei sintetizzatori è misurato e mai sgradevole. La voce resta protagonista indiscussa, e si sa, la voce di Coez non cerca virtuosismi, ma confessioni viscerali, parla, a volte canta, ma soprattutto racconta, si confida con un’intimità senza veli, come se condividesse un diario segreto.

La produzione – curata da Esseho, Valerio Smordoni e Golden Years – è essenziale ma raffinata: lascia respirare le parole, mette al centro la voce.
Le canzoni di 1998 sono istantanee emotive: una sera a Roma, un motorino nella notte, una telefonata mancata. Coez scrive con un linguaggio quotidiano, quello che si ha solo tra intimi, senza mai cadere nel banale. Ogni parola pesa quel tanto da farti riflettere, i testi oscillano tra amori finiti o sbagliati, nostalgia adolescenziale e quella solitudine tipica delle città, che non è rumore ma distanza.
Tutto condito in salsa anni 90, quando ancora non esistevano i cellulari e l’unico modo per esternare l’amore era guardandosi negli occhi.
Tra i brani più riusciti troviamo “Mal di te”, forse il più vulnerabile del disco, minimal e diretto, con un arpeggio che si spegne piano nella voce, una confessione allo specchio, ogni parola pesa: il “mal” si sente, ti circonda, ti avvolge. “Ti manca l’aria” è la più incalzante, quasi onirica, con una tensione che sale senza mai esplodere, un giro notturno in motorino senza meta con tutte le canzoni del cuore che ti rimbombano nella testa e nel cuore. “Estate 1998”, la canzone che dà il titolo al progetto è un ricordo tenero e crudo allo stesso tempo, in equilibrio tra malinconia e lucidità, tra passato e presente. La linea resta pacata, ma mostra una prospettiva diversa, uno spazio senza tempo capace di farti rivivere un’estate di tanti anni fa. Chi cerca spigoli o sorprese potrebbe trovarlo troppo omogeneo.
In alcuni passaggi la ripetizione costante del mood rischia di rendere l’ascolto piatto, soprattutto se ascoltato in sequenza. Ma “1998” non è un disco per stupire né un inno generazionale: è un disco che ti prende per mano e ti accompagna in una stanza dove si può ascoltare e sentirsi ascoltati, tocca corde intime senza mai idealizzarle. Da ascoltare di sera, con le cuffie mentre il mondo fuori inizia a rallentare e tu hai il tempo di ricordarti chi eri. Non è un disco d’impatto, è un veleno da dosare in piccole pozioni, ti afferra un’immagine, ti colpisce una frase, ti ricorda una melodia passata.
C’è coerenza stilistica, l’autenticità nei testi e la capacità – rara – di parlare al cuore senza alzare la voce. È Coez al naturale, senza maschere né filtri.
(foto di Tommy Biagetti)







