Disponibile da venerdì 23 maggio, “ascesa, caduta,” è il nuovo album di ganri, per Pirates/ADA Music Italy. Interamente autoprodotto, “ascesa, caduta,” è il primo album nel segno di una forte provocazione culturale, in apparente contrasto con una musica sempre più trainata, spiegata (e in ultimo, forse, giustificata) dai temi testuali e dal suo contenuto esplicito. Il suo debut album si propone come un capovolgimento di fronte: il suo significato implode, massimalista e barocco, nel significante musicale, più che nei suoi meandri lirici.
Ogni canzone diventa un’occasione di variazione e decostruzione, talvolta anche di abrasione e di negazione. Gli stessi loop e ritornelli, e le strutture più ricorsive, confermano la totale discrezionalità nello spaziare dagli schemi più tradizionali a quelli più progressivi. Il risultato di queste suggestioni è una sorta di manifesto Prog Urban, con elementi hyperpop (la produzione degli strumenti, i glitch e le scale), pavimentazioni industrial (i brodi digitali, i manierismi distonici spesso ai lati del panning, la sensazione di catena di montaggio digitale), e una forte sensibilità pop nel tessuto armonico della traccia (soprattutto nei synth e nelle melodie).
Lo abbiamo intervistato, curiosi di scoprire com’è nato questo nuovo prog urban e come proseguirà il suo percorso.
– Il titolo “Ascesa, caduta,” suggerisce un dualismo forte tra crescita e declino — quali emozioni o esperienze personali hai voluto condensare in questo contrasto tra i brani?
Direi che la chiave di lettura emotiva più sintetica del disco è la compresenza dei due termini. Più che una successione cronologica di un’eventuale ascesa e una romantica caduta, il titolo sottolinea la coesistenza di queste due appetizioni, che sono interpretate come due forze, opposte, che torturano l’io lirico tirandolo da una parte e dall’altra.
– Come immaginereste un videoclip della vostra focus track? Diretto da chi?
Un horror found footage ironico tipo Dashcam o una roba viscida tipo Thrash Humpers, oppure una mini puntata esplicitissima della Pimpa, o di Lupo Alberto.
– Musicalmente, si avvertono influenze tra elettronica e confessione intimista: come hai bilanciato l’uso di synth e strumenti acustici nella produzione di “Ascesa, caduta,”?
Non c’è nessuno strumento acustico nel disco. Solo suoni digitali e derivativi tartassati e sventrati, tuttalpiù c’è qualche campione rubato qua e là, rilavorato e riprocessato fino a perdere la sua identità “naturale”.
– Il tema del ciclo (salita/discesa) ritorna anche nei suoni: avete usato pattern ritmici o layering di voci per rappresentare “l’ascesa” e la “caduta” in modo simbolico? Qual è un esempio di questo processo creativo in studio?
I temi della ciclicità, della provvisorietà degli stati d’animo e più in senso largo della paradossalità degli stati ontologici, risiedono nella struttura dei brani e nella loro disposizione nel disco, più che nei testi o in suoni didascalici. Spesso le parole e le melodie, in questo album, credono fino in fondo alle sensazioni che provano e riportano, come se avessero la possibilità di trascinare e possedere il brano; è mio grande godimento, poi, spazzarle via col cambio successivo. O riutilizzarle successivamente, come se le tenessi in ostaggio e ne potessi fare quello che desidero. Sono sostituibili. Mentre in ogni piccolo glitch, in ogni beat change, o banalmente nelle progressioni più audaci e nell’architettura globale del disco, c’è la sugna, la ciccia dell’album. Nella struttura dei pezzi (e poi del disco) si evince quella magnificazione della precarietà, quella violenta denuncia dell’impossibilità della quiete, che formano un po’ la narrazione centrale di “ascesa, caduta,”. Più che un ciclo lo definirei dunque come una negazione continua, che porta da a a b, da b a c, eccetera.
Il mio processo creativo è stare ore e ore sui suoni, modificarli infinitamente, fino a che pian piano non si sviluppa un qualcosa di embrionale che sembra una porzione di un brano. A quel punto comincio a immaginare e speculare in che direzioni può andare e perseguo la visione, suonando ogni giorno come se fosse un lavoro impiegatizio, e lasciandomi aperto a cambiamenti inaspettati. Una volta poi ottenuta una canzone, la provo a inserire nel contesto strutturale di un progetto: se non mi sembra che ci sia spazio per lei, la cestino, o la lascio a macerare in attesa che un nuovo brano (che magari bilancia meglio il progetto globale) ne fagociti una parte, alcuni suoni, o degli strumenti, o anche solo l’ispirazione. Tendo a ragionare molto sull’insieme e sul bilanciamento e lavoro su più pezzi contemporaneamente.
– Cosa rappresenta questo album per te: una sperimentazione tematica oppure un nuovo inizio artistico?
Rappresenta assolutamente la prima volta nella mia vita che sono riuscito a portare a termine un disegno complesso. È il mio primo palazzo. Facendolo ho capito che sbatti è pensare a tutti gli aspetti di un disco e quanto posso layerare la mia musica. Sto lavorando su nuova roba, insistendo sulla ricerca elettronica, ma spero di fare qualcosa di armonicamente più coraggioso e vario. E meno pop perché alla fine certe cose di questo disco sono un po’ piacione.