“Il Male” degli Zen Circus è un granello di dibattito tra l’urgenza personale e il finto bene dei social
di Chiara De Luca
Foto di Rocco Pagliarulo
Passeggiare sul Lungotevere mi emoziona sempre un po’, come se sette anni a Roma non mi avessero resa immune alla bellezza di questa città. È una mattina di inizio ottobre, il sole brilla chiaro ma deciso. La città, maestosa come sempre, sembra però trattenere il fiato: autobus fermi e traffico deviato segnano l’attesa della manifestazione a favore di Gaza e della Flottilla che nel pomeriggio attraverserà le piazze. Nell’aria si percepisce una tensione lucida e sottile, quasi sospesa.
Arrivo all’albergo davanti al Tevere, avvolto da un silenzio particolare, in bilico tra calma e tempesta. Penso che non potrebbe esserci momento o luogo migliore per incontrare gli Zen Circus: proprio lì, in quella Roma in attesa, a pochi giorni dall’uscita del loro nuovo album, Il Male – in digitale dal 25 settembre e in formato fisico dal 26 settembre per Carosello Records.
È un lavoro che segna un ritorno all’essenziale: undici canzoni dirette, viscerali, che affrontano senza schermi il lato più ruvido dell’esistenza e della quotidianità, dove il buio non è scacciato ma attraversato. C’è una riflessione sul dolore e su tutto ciò che cerchiamo di tenere nascosto — le crepe, la rabbia, la paura — come se ammetterle fosse una debolezza.
Appino, Ufo e Karim Qqru fanno di questa fragilità una forza creativa, un modo per restare umani. La loro è una musica che non addolcisce, ma accompagna; che non pretende di dare risposte, ma di continuare a chiedere. Il Male diventa così un gesto di consapevolezza, un riconoscere che anche ciò che fa male ci definisce e ridefinisce.
E così, in quella mattina romana, tra la luce riflessa sul Tevere e i rumori trattenuti della città, provo a capire cosa sia, per loro, il male.
Il 26 settembre è uscito il vostro nuovo disco, Il Male. Nel presentarlo scrivete: ‘Il Male è ovunque. Ma cosa è? Il dolore fisico, una malattia? Cattiveria gratuita? Un tratto naturale umano? Sofferenza? La contrapposizione al Bene?’. Parlate di raccontarlo con un’urgenza espressiva che da tempo avevate messo da parte. Guardando oggi a quel momento, come vi siete confrontati con queste domande sul Male e in che modo quell’urgenza ha guidato la scrittura e la forza emotiva del disco?
Appino: il male si è in un certo senso autoproclamato, ce ne siamo accorti tramite le canzoni che stiamo facendo. Veniamo da un periodo particolare, quello del Covid, in cui il bene sui social sembrava andare per la maggiore: grandi sorrisi pubblicitari, fitness, frullatori, morning routine, cinque modi per fare questo, quattro modi per fare quello, “andrà tutto bene”… Tutto questo finto bene ci ha portati oggi a interrogarci sul perché siamo circondati dal male, quando dovremmo vivere in una società migliore. E quindi abbiamo fatto cantare direttamente il male: sofferenza, separazione, solitudine, perdita di qualcuno, dolore, mal di vivere, violenza, prevaricazione. Ogni canzone contiene questo… Questo disco, ripeto, è probabilmente figlio del periodo storico: siamo un po’ più incazzati, un po’ più arrabbiati con noi stessi, con tutto. Non te lo so dire come sia capitato, ma è successo, e in realtà è stato molto chiaro.
L’urgenza, oltre a essere sociale, era anche in qualche modo personale?
Ufo: quello ci è sempre successo: partire dal personale per parlare del mondo che ci circonda. Però, se lo fai parlando del male, o addirittura fai parlare il male, ottieni una reazione e ti rendi conto che tutti lo abbiamo dentro. Allontanarlo non porta a niente, fa soltanto sentire più solo chi lo prova. Il disco mette davanti a tutti questo diorama di mali: sono domande, non risposte. Per me sono principalmente domande.
Ricollegandoci un po’ alla domanda precedente, nelle tracce si parla di perdere identità nella retorica del giusto, di bene artificiale e di una società che ha troppe risposte ma si fa poche domande. Perché, secondo voi, siamo rimasti vittima di questa idealizzazione del bello?
Karim: perché la società è impostata così. Negli anni ’60 e con i caroselli l’Italia ha subito un mutamento rapido a cui la popolazione si è abituata molto velocemente. Questo perché si veniva da due guerre, dalla miseria e dal passaggio definitivo all’età industriale. Così, è cambiato il paradigma imperante. I social, soprattutto alcuni, hanno contribuito. Gli anni ’70 sono stati l’ultimo decennio di dibattiti feroci su questa cosa, poi è arrivato l’edonismo.
Ufo: esatto, ed è arrivato l’efficientismo. Una società che vuole essere efficiente e poi riposare, che tende a considerare il male come una cosa metafisica, perché ci identifichiamo tutti con il bene, soprattutto noi in Occidente.
Karim: anche l’aver allontanato la morte e la malattia fisica, i luoghi e gli oggetti che ce le ricordano, ha avuto un ruolo. Fino a pochi decenni fa c’era la veglia alla persona morta, che non esiste più. La società occidentale fa tutto il possibile per evitare la morte. E infatti la paura e il terrore di essa nella nostra cultura sono ormai esasperati.
(Karim e Ufo fanno riferimento a “Luoghi e oggetti della morte”, raccolta di saggi degli anni ’70 che spiega come questi luoghi e oggetti siano sempre più astratti e trasformati).
Appino: e così si arriva a dei deliri. Il disco, nel suo piccolo, vuole essere un granellino di dibattito sull’argomento.
In Virale, cantate: Alla sfilata le celebrità / Festeggiano insieme l’esclusività / Ma l’esplosivo è molto più inclusivo /E le farà brillare in cielo. In tema con gli anni ’70, ci ho intravisto un riferimento all’anarchico bombarolo di De Andrè e al suo desiderio di rivoluzione. È una vostra chiave di lettura per la situazione attuale?
Appino: in realtà tante frasi della canzone sono riprese da “La società dello spettacolo” di Guy Debord, che si è ammazzato dopo aver previsto tutto quello che la società odierna è realmente diventata. In “Virale” il protagonista, a differenza di Debord – che ha deciso di lasciare questo pianeta in solitudine – porta con sé qualcuno di questi simboli della società. Però sì, c’è anche un riferimento a De Andrè. Ovviamente, questa frase non deve essere un monito o una speranza in qualcuno che tiri una bomba a una sfilata, ma è giusto che ci siano canzoni che provocano ed esasperano i concetti odierni. Va bene che ci siano glitter e stylist, ma oggi dietro modelli del genere abbiamo perso di vista le cose essenziali.
Ufo: anche negli anni ‘60 c’erano questi modelli, c’era nei quotidiani la pagina di Costume e Società. Il problema attuale è che anche la politica è contaminata da questo, è tutto intrecciato.
Karim: esatto. Veramente si stanno incrociando le pagine di gossip e di moda, argomenti da Costume e Società, con le pagine di politica parlamentare…
Ridevamo dei soldi/ ridevamo anche dei guai/ brindavamo alla fine di tutto quanto/ ed era facile infrangere le regole ma poi/ adesso le facciamo noi. Ne La Fine cantate così, e io mi chiedo: è vero?
Appino: la canzone è un’allegoria, posta di proposito alla fine del disco, momento in cui si capisce che il male non è qualcosa che casca dall’alto, ma è dentro di noi. È importante partire da questo assunto, non possiamo essere solo bene, bontà e altruismo. Quindi, alla fine, ci ricorda che il male siamo anche noi.
In che modo?
Appino: con questa finta-vera lettera indirizzata a un nostro amico dell’adolescenza, dove ci rendiamo conto che a un certo punto certe scelte le devi fare. Per quanto tu possa aver evitato in passato, a certe regole – anche solo quella dell’esistenza – ci devi stare. È anche una provocazione… bisogna rendersi conto che conviviamo anche con una bestia, non si può immaginare solo un mondo di cose giuste e giustissime con gli esseri umani. Si va verso quello che ci sembra la giustizia, ma sempre facendolo i conti con un bagaglio pieno di mostri.
Puoi spiegarti meglio?
Appino: guarda, la parola che si usa tantissimo in questa “nuova psicologia” è il termine “risolti”, che a me fa ridere da morire. Cosa vuol dire risolti? Sicuramente una persona che viene a patti col proprio lato del male, come noi d’altronde. Ma ci sono altri mille fattori. Del resto, a noi piace non esserlo… risolti mai, casini sempre, un po’ come dicevamo da piccoletti. Non si può andare sempre verso le norme, un pochino di male deve esserci.

In “Vent’anni” descrivevate quell’età come caos, azione e ottimismo ingenuo, mentre in questo nuovo disco il paradigma sembra essere cambiato. In “È solo un momento” i vent’anni sembrano scivolati via sussurrandosi che era ‘solo un momento’, e in “Vecchie Troie” rivendicate con l’ironia i vostri doppi vent’anni e l’odio verso chi ha quell’età… guardandovi oggi, cosa sono per voi? Quale parte avete conservato e quale abbandonato?
Ufo: beh, dicevamo che a vent’anni eravamo stronzi… e ancora un po’ adesso lo siamo. Personalmente mi sento come una matriosca: dentro di me ci sono quello di quaranta anni, quello di trenta e quello di venti.
Appino: sono un momento bellissimo, mica lo cantiamo noi, si sa. Dicono siano anni di spensieratezza, anche se personalmente lo sono molto di più adesso.
Karim: quando siamo piccoli ci dicono che siamo spensierati, ma io ero davvero incasinato a vent’anni. Fortunatamente, di quel periodo lì mi resta la musica, l’unico punto saldo. Oltre a un gran casino e a un sacco di rapporti umani belli.
La vostra carriera è piena di collaborazioni con artisti più o meno famosi. Parlavate dei rapporti umani come di un qualcosa che resta… ma chi tra questi ha lasciato più il segno dal punto di vista umano?
Appino: sicuramente ognuno a suo modo ha lasciato qualcosa, però ce n’è uno in particolare che non ci dimenticheremo mai, Brian Ritchie dei Violent Femmes. Arrivò in un momento particolare, ci ha salvato dal baratro di un periodo di merda, magari anche dallo scioglimento.
Karim: Brian è stata una roba assurda… il bassista del gruppo dei tuoi vent’anni. Ci ha dato tanto sia come band che a livello personale, consigli e certezze che allora non avevo. Ci ha mostrato come tutto era più semplice di quel che sembrava.
Ufo: sì, lui è stato un po’ il nostro salvatore. Poi di artisti del cuore, a livello personale, ne abbiamo tanti. Ma lui sicuramente ci accomuna.
Vorrei concludere con una piccola curiosità personale. Cantate: Questa canzone l’ho sognata/ come McCartney e Yesterday/ certo non è la stessa cosa/ ma il subconscio non mente, non è divertente. È davvero andata così?
Ufo: confermo.
Appino: io stavo dormendo e il gatto m’ha svegliato, come in questa canzone (“Meglio di Niente”). Eravamo in un in uno studio televisivo e suonavamo questa melodia. E, appena sveglio, ho registrato un memo vocale sul telefono. Però non ci crede mai nessuno, devo sempre farlo sentire. E io l’ho davvero ascoltato quell’audio, conclusione perfetta di questo viaggio con gli Zen Circus. Una melodia appena sognata cantata con voce assonnata e un’allegria generale, a dimostrare che con il male, tutto sommato, si può star bene.
Una melodia appena sognata, la voce assonnata di Appino, il suono di una chitarra in sottofondo e un’esplosione di allegria nella stanza. Uscita dalla hall di quell’albergo, sono di nuovo lungo il Tevere e la mia testa torna alla lunga chiacchierata con gli Zen Circus. Mentre penso a quanto il bello fittizio ci distolga da ciò che realmente ci circonda, da ciò che proviamo e da noi stessi, scorgo le prime bandiere dirigersi verso il luogo d’incontro della manifestazione. Forse davvero le coscienze si stanno svegliando, forse la finzione non è più una barriera invalicabile. L’unica cosa di cui sono certa è che non poteva esserci giornata migliore per questa intervista.







