– di Riccardo De Stefano –
Finalmente, ci siamo arrivati: dopo tutti gli psicodrammi (“chi ci andrà? si ritira?”, “forse lo squalificano” e via dicendo), alla fine Lucio Corsi sta rappresentando l’Italia all’Eurovision, al termine di un percorso tanto inaspettato quanto affascinante. Un’ascesa cominciata a Sanremo 2025, dove da perfetto sconosciuto per il grande pubblico si è trasformato in un vero e proprio fenomeno nazionale. E oggi, a distanza di pochi mesi, è diventato l’artista che più di ogni altro ha saputo incarnare l’immaginario di una musica italiana diversa, sincera, visionaria.
Un outsider che ha conquistato Sanremo
La storia è nota: Lucio Corsi si è presentato al Festival con “Volevo essere un duro”, una ballata elegante e fuori dal tempo, accompagnato dal fedele Tommaso Ottomano (co-autore e presenza costante nelle opere e nell’immaginario di Lucio Corsi) e, nella serata delle cover, da un complice d’eccezione: Topo Gigio. Quella che sulla carta sembrava un quasi suicidio artistico, un’operazione che avrebbe potuto facilmente scivolare nel ridicolo, vista la teatralità del personaggio, i costumi appariscenti e i trucchi vistosi, invece ha convinto tutti, riuscendo a trasmettere un’autenticità rara.
Lucio Corsi ha da sempre levitato con la sua musica, dalle caratteristiche della leggerezza calviniana, regalando un mondo pastello fatto di ragazzi troppo secchi, capaci di fare il giro della morte con l’altalena, dove il paesaggio è fatto di vento, foglie secche, onde che battono la spiaggia, e quella magia fragile degna di un quadro di Matisse. Ecco che l’esibizione con Topo Gigio ha rappresentato quel momento di tenera sospensione dell’incredulità, la meraviglia del bimbo che vede confondersi la marionetta e il cantante, l’uno al posto dell’altro.
Ecco perché il suo secondo posto – dietro a Olly, sostenuto dall’influente Marta Donà de Latarma – ha lasciato l’amaro in bocca a molti. In un altro contesto, con un altro regolamento, avrebbe forse vinto. Ma per quanto retorico, davvero per una volta ha conquistato il cuore del pubblico, giovani e adulti, nostalgici della canzone d’autore e neofiti incuriositi da una figura così lontana dalle logiche dell’industria musicale mainstream.
Dalle radici cantautorali al glam rock
Chi conosce il percorso di Lucio Corsi sa che non si tratta di un’apparizione estemporanea. Fin dagli esordi ha mostrato un’attenzione particolare alla scrittura, con i primi dischi fortemente legati alla tradizione cantautorale italiana, esemplificati dal primo full-lenght “Bestiario musicale” del 2017. Ma è con “Cosa faremo da grandi” (2020) che la sua musica cambia pelle: al lirismo delle parole si affianca una inedita – per lui – estetica sonora, ispirata al glam rock e alle chitarre di Marc Bolan dei T. Rex. Il fulmine a ciel sereno di “Freccia bianca” ci dice che Lucio non è solo un ingenuo sognatore proto-indie, ma un artista che, nell’epoca del synth pop e della trap più becera, vuole fare qualcosa di diverso.
Con “La gente che sogna” (2023) questa metamorfosi si compie completamente: Corsi diventa un glam rocker visionario, un artista che trasforma il palco in un carnevale psichedelico, in un “glam party” – come lo definisce lui stesso. Un’alternativa concreta al mondo urban, trap, rap.
Poi Sanremo, “Volevo essere un duro”, il tour sold out nei palazzetti, il Concertone del Primo Maggio di Roma, tutto nel giro di qualche mese.
Eurovision: occasione o trappola?
Ed eccoci dunque all’Eurovision. Dopo la rinuncia di Olly, dovuta alla concomitanza con il tour, è proprio Lucio Corsi a rappresentare l’Italia sul palco europeo. Una scelta accolta con entusiasmo da chi spera ancora che la canzone d’autore possa avere una voce nel pop contemporaneo.
Ma il rischio è evidente: Sanremo e Eurovision condividono la loro natura televisiva. Simbolo della spettacolarizzazione più pura, di quella che non può esimersi dall’essere caciarona, volgare, sopra le righe, Sanremo come l’Eurovision concentrano gli occhi di tutti sui tre minuti di esibizione, quel make or break it dell’attenzione mediatica che spinge gli artisti sempre più vicino a essere fantasmagorie usa-e-getta, prodotti capaci di durare solo il tempo in cui stanno davanti la camera per poi sparire per sempre.
l’Eurovision è l’apoteosi dei “tre minuti televisivi”, una vetrina spettacolare dove spesso conta più l’eccesso che la sostanza. È legittimo domandarsi se l’autenticità di Lucio Corsi saprà affrontare questo frullatore mediatico. Se la tentazione di arrivare al Grande Pubblico lo spingerà verso una banalizzazione della sua musica (seguendo l’equazione che “più pubblico, meno contenuti”), oppure se rimarrà fedele a sé stesso, magari perdendo rapidamente l’effetto onda televisiva e tornando a essere bravo, ma non più così rilevante.
Ma d’altronde, Corsi non è un artista da effetto speciale a tutti i costi. Non è Tommy Cash, non è Gabri Ponte. E si è visto: sul palco dell’Eurovision ha scelto una sobrietà sorprendente, quasi dissonante rispetto al contesto. Ha persino cercato di introdurre l’armonica sul palco, in dichiarata opposizione alla stupidità delle regole che impediscono alla musica di essere suonata dal vivo (una distopia musicale vera e propria), nel tentativo di mantenere una connessione personale con la sua musica.
Il dono terribile della speranza
La verità è che Lucio Corsi ci ha fatto un dono bellissimo e terribile: la speranza. Ci ha fatto credere che un’altra strada sia possibile, che si possa scrivere e cantare una musica diversa, senza compromessi, e riuscire comunque ad arrivare a un pubblico vasto.
Ma questa speranza ora è anche una responsabilità. Il successo post-Sanremo è evidente: tour sold-out, date nei principali festival, le date nei grandi eventi come Rock in Roma o Milano Summer Fest, in location da 30.000 persone. Un artista che prima riempiva locali di medie dimensioni si ritrova oggi al centro dell’attenzione nazionale.
E allora la domanda è: riuscirà a reggere questa pressione? Saprà mantenere la sua coerenza artistica ora che il pubblico è più ampio, più distratto, più esigente?
Oltre l’hype
“Volevo essere un duro”, pur scritto prima di Sanremo, ha mostrato un ritorno di Corsi a un certo cantautorato italiano, quasi a metà strada tra Ivan Graziani e il glam, abbandonando momentaneamente le tinte più rock dei dischi precedenti. C’è in questo un rischio di eccessiva citazione, quasi una forma di cannibalizzazione dei maestri: “Sigarette” e “Situazione complicata” sono davvero tanto derivative. Ma meglio essere debitori di Graziani che emulare prodotti senz’anima, no?
Il vero banco di prova, però, sarà il post-Eurovision. I Maneskin – con un progetto molto diverso – hanno saputo trasformare quell’onda mediatica in una macchina da guerra internazionale. Corsi è un’altra cosa: è un autore, un artista sincero, forse troppo sincero per certi meccanismi.
Conclusione: tra onere e onore
Lucio Corsi ci ha dato qualcosa di raro: un’alternativa. In un panorama dominato da brani scritti da dieci autori e prodotti per essere virali, lui ha portato sul palco una visione personale, coerente, fuori dal tempo. E oggi, mentre affronta la prova più difficile della sua carriera, ci auguriamo che sappia restare fedele a se stesso, continuando a scrivere, a raccontare, a stupire.
Perché la speranza che ci ha regalato non si tradisca. Perché la sua sincerità, la sua voce, la sua estetica così potente e poetica possano continuare a vivere anche oltre i tre minuti di spettacolo.
Grazie, Lucio. Adesso tocca a te.
foto di copertina Simone Biavati