– di Giacomo Daneluzzo –
Maninni, cantautore pugliese, classe 1997, ha pubblicato il suo singolo più recente, intitolato “Senza”, uscito lo scorso 29 gennaio per Trident Music e Polydor; si tratta di un brano intenso e coinvolgente, che racconta la fine improvvisa di una storia d’amore. Il singolo è il terzo, dopo l’esordio “Parlami di te” e la seconda release “Peggio di ieri”. L’abbiamo intervistato per parlare di “Senza”, del suo processo creativo, dell’origine del suo nome d’arte e di molto altro.
Ciao Maninni! Guardando al tuo percorso discografico vedo che esordisci nel 2017 con “Parlami di te”, poi nel 2019 arriva “Peggio di ieri” e nel 2021, adesso, troviamo “Senza”. Hai esordito a vent’anni col primo singolo e poi ci sono state queste pause, con un anno di silenzio discografico e un anno in cui pubblicavi un singolo. A che cos’è dovuta questa scelta? Che cos’hai fatto in questo tempo?
Due anni fa volevo emergere, volevo scrivere qualcosa di tanto “vero” e non riuscivo ad avere credibilità in quello che facevo. Ho ricevuto tante porte in faccia da parte di etichette discografiche e si tende a dare la colpa agli altri, molte volte, per il fatto che non si viene accettati o capiti. Io mi sono girato dall’altra parte e ho pensato: “Ma se stessi sbagliando io? Se la colpa fosse mia?”; molte volte bisognerebbe farsi un esame di coscienza e cercare di conoscere a fondo se stessi, così da capire che cosa vuoi dire, comunicare, raccontare. Conoscere se stessi è una delle cose più importanti per fare questo lavoro. Anche se non conosci mai abbastanza te stesso è importante cercare di studiarsi e di capirsi, di studiare il proprio io, la propria personalità, la propria profondità e la propria sensibilità. Ho preferito prendermi del tempo, studiarmi un progetto nei minimi dettagli, senza fare le cose di fretta. Tu, che hai vent’anni, lo sai meglio di me: abbiamo tutta la vita davanti. E questa è una delle cose più importanti, perché, se non riesci a conoscerti e a capirti tu per primo, come puoi pensare di farti conoscere e capire dagli altri? Questa è la domanda che mi sono fatto tante volte perché non mi sentivo pronto; pensavo di esserlo ma dentro di me sapevo di non esserlo davvero e di non saper affrontare la scia discografica e musicale di questi ultimi anni.
La tua biografia dice che sei “taciturno” ed “empatico” ma anche “profondamente energico”: come coesistono questi due aspetti della tua persona e come si riflettono nella tua produzione artistica?
Io sono una persona molto taciturna e non vorrei dire poco socievole, ma la cui socievolezza dipende dalle situazioni: in alcune non mi ci trovo, mi chiudo in me stesso e divento molto introverso. In altre situazioni, dopo aver preso più confidenza ed essermi trovato con delle persone, mi carico di energia e inizio a essere il “protagonista del club”. È un paradosso e mi serve molto con la mia musica. Nelle mie canzoni ci sono brani non solo profondi, ma anche molto energici. Nei momenti più “taciturni” scrivo cose più riflessive, introspettive, nei momenti più “energici” cerco di catturare dalla vita le sensazioni che mi dà quel momento. Se dovessi fare un disco mi piacerebbe inserire canzoni strappalacrime e canzoni che, suonate a un concerto, fanno divertire, fanno ballare. Anche perché io provengo da un underground rock, quindi il divertimento e il saltare sotto i palchi ai concerti, quando avevo una band, erano la cosa più importante. A essere sincero nei momenti di tristezza più profonda non riesco a scrivere, il mio cervello si scollega e non riesco a buttare giù musica e parole; durante il primo lockdown non ho scritto nulla; era una tragedia perché non riuscivo a concentrarmi e a trovare l’ispirazione. Poi, andando a svilupparle, le situazioni tristi mi portano ispirazione, ma mentre le vivo non riesco.
“Senza” parla di un momento triste, appunto, quello di una rottura immediata, troncata… Si tratta di un testo autobiografico?
Molte volte si tende a pensare che i cantautori scrivano in base alla propria vita. A me piace raccontare storie non soltanto mie: avendo ventitré anni quanto puoi raccontare? Non ho vissuto tutto dalla vita, non ho un grosso bagaglio di esperienze per scrivere cose così diverse tra loro. Mi piace ascoltare le storie delle persone e metterle nelle canzoni. “Senza” è nata guardando un film, che mi ha fatto pensare a quale potesse essere il motivo peggiore per la fine di una storia d’amore: essere lasciati così, senza preavviso. È il fatto di non poter mai sapere che l’ultima volta sia effettivamente l’ultima. Dietro a questo concetto c’è anche un messaggio di speranza, quello di credere in se stessi, con la speranza di potersi rialzare, e di viversi le cose come se potesse essere l’ultima volta, tanto nelle storie d’amore quanto in generale.
Questa storia d’amore finita un po’ per caso mi fa pensare: perché le relazioni finiscono, perché le coppie si lasciano?
Molte volte non c’è un perché. A volte le coppie si lasciano perché si amano troppo e non riescono a gestire il loro amore, ci sono coppie che si lasciano perché non sono fatte per stare insieme, magari perché non c’è rispetto reciproco. Ho notato che negli ultimi anni non si combatte per amore, ci si ferma al primo ostacolo; uno dei segreti per far durare una storia d’amore è quello di cercare compromessi e superare gli ostacoli, se si ama davvero l’altra persona. Noto una scarsa fiducia nell’amore, se così si può definire, e quello che vorrei fare è riportare questa fiducia. Dopo la fine di una storia d’amore le brutte esperienze non sono davvero brutte: spesso la vita ti riserva belle e brutte sorprese, ma anche da quelle brutte si può captare un messaggio e un’esperienza che ti porta a essere ciò che sei. Sono tutti segnali positivi, sia le esperienze belle che quelle brutte, sono segnali di maturazione. Nel mio caso anche artistica: dalle esperienze, vivendo, riesco a crescere anche artisticamente.
Chi è Alessio, chi è Maninni e quali sono le principali differenze tra i due? Come mai questo pseudonimo che riprende il tuo cognome, Mininni, cambiando una lettera?
Alessio è una persona divertente, solare, socievole, romantica e passionale. Mi piace definirmi così. Sono “di compagnia”, non tengo le distanze dalle persone – anche se in questo periodo sì (ride, ndr). Maninni invece è una persona più profonda, taciturna e introspettiva, la parte che dicevamo prima “taciturna ed empatica”. Il nome d’arte è nato parlando con la mia manager: fin dalle scuole elementari ho avuto difficoltà con il mio cognome. A scuola le maestre o le professeresse sbagliavano sempre il mio cognome, non riuscivano mai a dirlo: invece di Mininni dicevano “Minnini”, “Minninni”. Questa cosa mi dava fastidio e volevo cambiare cognome. È divertente ma è una brutta situazione: ma pensa se devo correggere ogni persona a cui mi presento. Volevo un nome d’arte che fosse un’associazione tra il mio cognome e il mio nome e che abbia un suono bello, a me piace. Quindi ho pensato di sostituire la lettera iniziale del nome alla prima vocale del cognome, quindi è venuto fuori Maninni, nome che mi è piaciuto fin dall’inizio. È già capitato che in alcune interviste lo sbagliassero e dicessero “Mannini”, quindi si ricomincia… Nel mio paese, in Puglia, io sono di Bari, “mininni” vuol dire “bambino”, quindi immagina tutta l’infanzia con tutti gli sfottò del paese.
Com’è la scena barese, ti ci sei trovato? Che rapporto hai con la dimensione locale?
Vivo ancora a Bari. Qui abbiamo degli splendidi territori e degli splendidi paesaggi. Anni fa avevo una band, facevamo rock e musica internazionale come U2, Pink Floyd e Green Day. E da lì è nato tutto. Io sono un chitarrista, non ho mai fatto il cantante e il mio sogno è sempre stato fare il chitarrista. E con questa band non riuscivamo a trovare un cantante, quindi ho pensato: “Canto io”, ispirandomi anche ai miei idoli, Vasco Rossi, Ligabue e Bono Vox. Ho iniziato a scrivere le mie prime canzoni, a partecipare con il gruppo a vari contest e a suonare nei locali, guadagnando quei pochi spiccioli per pagare la strumentazione e pagarsi il viaggio. La gavetta va fatta prima di fare qualsiasi cosa, prima di entrare in uno studio di registrazione. Suonare in piccoli palchi davanti a poche persone è una palestra che funziona, sicuramente. Eravamo ragazzini, ci sono stati degli screzi, il gruppo si è sciolto. Avevo già scritto dei brani e ho iniziato a lavorare su me stesso, perché avevo capito che il mio sogno, il mio obiettivo, era quello di essere il cantautore. Ho dedicato il 100% alla musica. Quando mi chiedevano: “Ma tu ce l’hai un piano b?” io rispondevo: “Sì, la musica”. Non sarò un cantante di successo ma farò musica, non m’interessa. Ho fatto il liceo musicale e ho frequentato il Conservatorio. A Bari ci sono tanti cantautori e band emergenti che secondo me hanno molto da dare. Poi abbiamo Ermal Meta, che nonostante abbia vissuto in una terra come quella pugliese che non offre grandi possibilità come una grande metropoli, dopo tanti anni ce l’ha fatta, quindi quando guardo lui, che ho conosciuto ed è una persona splendida, penso che lui è l’esempio per continuare a crederci, per continuare a lottare e a inseguire il proprio sogno, perché se lo vuoi e se metti te stesso e t’impegni con determinazione, costanza e dedizione le cose prima o poi arrivano. Poi lui ha una storia dietro molto particolare, è arrivato in Italia, per tutto quello che ha fatto per me è stato un grande e sapere che abbiamo le stesse radici mi fa piacere.