Direi che un viaggio soltanto non basta. Direi che dietro le quinte di questo disco non c’è solo ricerca, la cultura di tradizioni e suoni meno quotidiani, anfratti popolari di mille altre direzioni possibili, rituali e scritture antiche. Dentro c’è anche la ricerca del modo personale di starci dentro… in trio con Gioele Pagliaccia (batterista) e Reda Zine (musicista e documentarista) tra ricami di improvvisazioni, flussi che sembrano di coscienza oltre che di suono, tramandando conoscenze orali e ricamandone nuove prospettive. Dal Jazz a piccole sfumature che qualche saggio direbbe addirittura di rock. Io vorrei poter essere libero di usare parole importanti come “avanguardia”. “Antro” è un disco dentro non facili immersioni…
Partirei con una domanda assai “filosofica”. Un “antro” dentro cui trovare che cosa? L’uomo e la sua ritualità o le ragione della sua esistenza?
Nell’Antro si trova il “non voler più cercare”. Nel momento in cui si arresta la smania di voler capire, scoprire, fare esperienze straordinarie, quando si contatta il deserto o l’Antro in questo caso, allora sorge uno stato di apertura che spontaneamente porta ad una conoscenza di cui non c’è più bisogno di dare definizioni.
Quanta sperimentazione e improvvisazione c’è dentro questo lavoro?
In questo lavoro ci sono tre esistenze che si sono incontrate, ognuno di noi ha navigato in lungo e in largo nel mondo del suono e non abbiamo fatto altro che far dialogare i nostri linguaggi, lasciando emergere delle scintille di linguaggio nuovo che zampillavano dai magma caotici delle prime “prove”. La sperimentazione in questo disco si basa sul coesistere di due polarità, da una parte il rigore filologico nel rispetto di modi e codici proveninenti da codici arcaici di tradizione orale, dall’altro la ricerca di un abbandono totale, di un divenire Uno nel suo, tutti e tre insieme.
Certi dischi inevitabilmente portano con se il peso e la ricchezza delle terre di confine… pensi che li si addensi la verità degli uomini e dei loro rituali?
Di verità non oso parlare, sicuramente nelle terre di confine si dissolvono quei concetti mentali e culturali di identitarismo e rigidità. Nelle zone di confine ci si mescola più facilmente perchè non si appartiene in modo delineato ne’ all’una nè all’altra “terra”, dunque si stratificano ricchezze sonoro e codici che emanano vibrazioni interessanti. Così come al contrario nelle zone estremamente confinate e difficili da raggioungere si depositano linguaggi sonori meno dinamici ma non per questo meno potenti.
Hai rispettato le tante culture che sei andato a scomodare o in qualche modo ne hai provato una lettura e un suono tutto personale?
Entrambe le cose.. credo che per personalizzare un certo codice bisogna prima entrarci a fondo, altrimenti si rimane in una semplice emanazione di clichet basati su propri vecchi condizionamenti. Per me immergermi in codici sonori arcaici vuol dire sprogrammarmi, annullare temporaneamente quell’io che pensa di dominare questo o quel linguaggio, ripartendo da zero. Ho impiegato però quindici anni per far uscire questo lavoro. Sono processi che se fatti profondamente richiedono molto tempo. Una di queste culture che sono andato a “scomodare” per usare un tuo termine, è proprio quella che risiede nel mio dna culturale. Sono i suoni che praticavano e in parte praticano tuttora miei parenti, paesani, da cui in passato sono in qualche modo fuggito per cadere nell’urgenza dell’omologarmi nelle culture ufficialmente accettate. Mi sono duqne andato a scomodare nel mio profondo, nel mio inconscio, nelle mie paure più profonde di sentirmi parte di una cultura semplice, contadina, aspra, e allo stesso tempo nelle mie gioie più profonde, quelle infantili del periodo in cui l’io non era ancora formato e non ero separato dal tutto che mi circondava. Tornarci da grande è una grande liberazione, direi Dionisiaca.
Per te il mito cosa rappresenta per davvero? E in questo disco che dimensione e che ruolo ha?
Il mito è una grande montagna che va conosciuta, scalata, esplorata, per poi essere superata e arrivare oltre la vetta in cui si apre uno spazio in cui non c’è più nulla, se non luce e nuovi luoghi per diventare altro.