Dal primo beat, “Free Hands” ti aggancia e non ti lascia più andare. E sono molteplici i piani di lettura, tanto spirituali quanto densi di nuova energia dentro cliché eterni. Il nuovo album dei Melty Groove – trio torinese che macina funk, soul e rock con una naturalezza disarmante – è un concentrato di groove incalzante, linee di basso che colpiscono dritte allo stomaco e ritmiche serrate che fanno muovere anche chi ha giurato di non ballare mai più. Questo non è solo un disco: è un manifesto di libertà musicale, una dichiarazione d’indipendenza da generi e convenzioni, un invito a lasciarsi andare e vivere il sound senza filtri. Il primo fascino arriva dalla progressione che troviamo dentro “Seven” nello sviluppo dell’inciso: provare per credere.
Il titolo “Free Hands” gioca su più livelli: l’idea di una creazione “a mano libera”, spontanea e artigianale, si unisce a quella di un’amicizia profonda tra i tre membri della band, uniti nella vita come nel suono… che poi in definitiva è tutto in connessione, tra concetti, modo di pensare alla forma canzone, quel carattere apolide nonostante dichiari a pieno radici losangeline, come si dice. Un suono sicuro, fedele, un suono che resta sul battere e celebra a pieno i confini di ogni attore di scena. Cassa, rullante e suoi riverberi, il basso (assoluto protagonista di tutto l’ascolto). E tornando dentro “Seven” colpisce come un “downtempo” diventi così incalzante andando anche a citare quel gusto metropolitano alla Micheal Jackson (almeno nel mio ascolto). Il soul, il gospel, la spiritualità arriva subito e la ritroveremo anche dopo: “Breathing” fa così nonostante ceselli i cori con una severità quasi digitale. Belli i synth dal gusto retrò… bella l’elettronica a contorno che dai bassifondi ci ricorda che gli anni ’80 non sono poi tanto lontani. Se E poi arriva la sorpresa: la rilettura di “Amore che vieni, amore che vai” di Fabrizio De André è una reinterpretazione audace che trasforma il classico cantautorale in un viaggio tra Mediterraneo e Oriente, con sintetizzatori avvolgenti e una costruzione che esplode in un climax dal sapore progressive. La vera perla per me è proprio “Trigger”: l’America di Jackosn Brown, quel sex appeal alla George Micheal e la solennità del soul che qui forse avrei veduto decisamente più importante se fosse stato portato a spalla da una vera sezione di fiati.
Senza spoilerare altro: un disco d’esordio davvero maturo e ben deciso, stabilito, studiato e urgente. Ci si cade dentro mani e piedi… il ritmo detta legge ma poi alla fin della fiera è sempre l’anima che porta il conto. A mani libere ha fatto centro. Purtroppo per problemi tecnici il disco tarda ad arrivare dentro i canali di streaming ma restate sul pezzo, ovunque la rete sforna link utili per raggiungere questo esordio… stay tuned!!!