di Riccardo De Stefano.
con la collaborazione di RadioEco e Lindiependente.
“Chi cazzo è Kendrick Lamar?”. Per ogni domanda il suo contesto: se lo chiedesse mia madre, sarebbe l’ovvia domanda di chi non segue “la scena” e si è persa il più rilevante artista del decennio, fresco di Pulitzer; se lo senti dire allo Sziget, forse è colpa di qualche italiano distratto che non sa quel che dice. Ma a leggerlo scritto su uno striscione al concerto di Willie Peyote, assume un senso diverso: Willie, infatti, sale sull’Europa Stage del Festival di Budapest appena finito lo show di Lamar (che, per inciso, ha dimostrato di essere il numero 1 al mondo) e fa capire quanto sappia trovarsi a proprio agio su quel palco:
È stato strano quando mi hanno detto che avrei suonato allo Sziget e ancora più strano quando mi hanno detto che avrei suonato la sera di Kendrick Lamar. Quando mi danno un palco grosso sento di dover dimostrare di non essere lì per caso, quindi mi sento responsabilizzato. Mi sento come al primo giorno di scuola, mi guardo intorno, voglio viverla in maniera divertente.
Questo Sziget è più che mai a matrice italiana: due nomi sul Palco Europa e un Lightstage organizzato da Alternativa tutto al sapore di spaghetti. Un festival così grande e quasi più attento alle realtà nazionali rispetto molte manifestazioni nostrane:
Secondo me in Italia c’è un tentativo repressivo generico e la burocrazia non aiuta ad organizzare cose del genere, ci sono problemi anche strutturali, è una cosa di cui cerco di parlare anche nell’ultimo singolo Effetto sbagliato.
L’area è piena, il pubblico è molto e attento, e ovviamente la presenza dei fan italiani è predominante, a dimostrazione che qualcosa nel nostro panorama musicale è cambiato:
Non siamo poi molto portati a venderci bene all’estero in contesti come questo: urliamo, disfiamo, quindi non importiamo. Però bisogna anche dire che fino a qualche tempo fa la musica italiana era figlia di quello che facevano all’estero. Se io devo ascoltare un rapper che rappa come un americano, mi ascolto un americano.
Lo Sziget lo dimostra, l’italianità ripaga:
Facciamo musica molto italiana, il che è spendibile: Giorgio Poi apre i concerti dei Phoenix in America, Calcutta è spendibile come lo era Battisti perché molto italiano. La lingua non è uno scoglio così grande, perché Stromae te lo ascolti e non è english speaking. La musica fatta bene è recepibile a chiunque ma se è anche ascrivibile al contesto culturale da cui vieni, è ancora meglio, perché riesco a collocarti.
Certo, Willie ci ha messo molti anni e ha fatto molta gavetta prima di arrivare qui. Con un inevitabile slittamento di genere, dall’hardcore degli inizi a questa forma ibrida, capace di unire funk e anche un po’ di pop:
Io credo di essere hardcore solo in modo diverso, come un uomo di 30 anni che ragiona su quello che dice, non come a 20 anni che o è tutto bianco o tutto nero. È aumentata la mia percezione delle cose, della politica. Il vero motivo per cui ho alleggerito la musica è che se ritieni di avere qualcosa da dire, devi dirla a chi non la pensa come te, quindi per arrivare a quel pubblico lì, devo capire come funziona la comunicazione con loro. Arrivare da Fazio e fare incazzare Belpietro, è un obiettivo raggiunto per me, ma ci arrivi se smetti di urlare le bestemmie sul palco.
Mi domando allora se questo “alleggerimento” corrisponde a un compromesso, o addirittura un tradimento della propria musica:
Quando parli con qualcuno è sempre un compromesso. Non si può dire tutto quello che ti passa per la testa, bisogna che l’altro ti capisca. Io non ritengo che i compromessi siano svilenti, ma ritengo anzi che mi abbiano arricchito di sfumature. Nell’ultimo disco si passa da un pezzo come Vilipendio, che è un pezzo come Oscar Carogna, a Metti che domani in cui non c’è una parolaccia e ci ho messo sei mesi per scriverlo. Voglio fare in modo che mia nonna smetta di guardare la D’Urso: se adesso abbiamo un governo di merda è colpa del fatto che nessuno parla più alle persone, se non Salvini. Io faccio quello che la sinistra non sta facendo da 30 anni.
Willie è uno dei pochi rimasti a metterci il cosiddetto “sociale” nei propri testi – senza scordare, s’intende, il sano groove e i beat giusti – andando a piazzarsi in quel calderone che oggi sembra essere un’infamia: quello della musica “politicizzata”.
Un discorso politico fatto da chi non ha coscienza politica è Fedez. Se prendi posizione lo devi fare consapevolmente. Perché fare la copertina di Rolling Stone e poi condividere in quel modo alla carlona fai il gioco di Salvini. Non mi interessa nemmeno che gli altri si accodino alla mia posizione, io faccio il mio. Stimo artisti come Frah Quintale, i Coma_Cose, in Italia c’è un fermento reale, poi ognuno lo declina come meglio crede. Io ascoltavo i Rage Against the Machine, i 99 posse, Gaber, musica schierata, e io non posso fare altrimenti. Non devo “insegnare” agli altri: se fai bella musica ci vengo al tuo concerto, se poi mi fai pensare è qualcosa in più. Adesso sono finito nel calderone dell’indie, dove mi prendono per il culo con cose tipo “troppo comunismo ai concerti di Willie Peyote”.
Fare un discorso politico significa schierarsi: io sono qui, voi dove siete? In tempi dove il pop cerca invece di abbracciare qualunque colore politico, far depensare i depensanti, non c’è il rischio di ghettizzarsi e perdere l’occasione di arrivare a tutti?
Io non ho preclusioni perché sarebbe supponente decidere il proprio pubblico. Se fai una cosa e la rendi pubblica, da lì in poi fanno quello che vogliono. Per me può venire anche Salvini al mio concerto, e poi ci parlo anche. Tolti quelli di CasaPound e Forza Nuova, tutti gli altri vanno bene. In base a chi ho davanti cerco di calibrare il taglio del concerto, l’importante è sempre che arrivino le cose. È un momento storico in cui c’è tanta gente che va ai concerti, quindi in molti si trovano al mio concerto un po’ per caso, perché magari c’è la tipa che vuole scoparsi che viene al concerto, e mi piace. Non voglio un pubblico uguale a me, se no sto a casa a parlare allo specchio.
Quello di Willie è un tentativo di incentivare un pensiero critico, smuovere, in un certo senso, le coscienze. Senza puntare il dito, per fortuna:
Voglio che la gente si faccia delle domande, fargli vedere un altro punto di vista, che non devono per forza apprezzare, però almeno prenderlo in considerazione. Credo che oggi in Italia manchi l’empatia, la capacità di capire chi hai di fronte. C’è poca umanità in questo momento, ognuno pensa al proprio torna conto, se sta male lui chissenefrega degli altri. Invece no, condividiamo anche il male! È tutto a squadre, o sei con noi o sei contro di noi, e vorrei scardinare questo meccanismo.
Raccontare un malessere che non è quello posticcio del nuovo pop indie né l’ostentazione forzosa della trap di ricchezza e misoginia.
È un modo per uscire dalla tv del malessere alla Maria de Filippi di C’è posta per te, oppure il voyeurismo di vedere come vivono i ricchi, quel “Berlusconi lo voto perché se fossi al posto suo farei uguale”. Ma se sei al pub con gli amici non gli devi cagare il cazzo col fatto che stai male. Io faccio musica come vivo la mia vita: ho passato dei momenti brutti, nei precedenti dischi ho parlato anche di suicidio, però domani dobbiamo alzarci tutti da quel letto, quindi cerchiamo di prenderci bene, soprattutto ai concerti. Dopodiché “nella vostra trasgressione c’è un sacco di conformismo, in tutto quel disagio c’è un sacco di narcisismo” come dico ne I Cani. È finto, Tommaso Paradiso che mi parla dello xanax prima di salire sul palco, mi prende per il culo. Il malessere quando c’è va rispettato, e non lo si fa sminuendolo o facendone un cavallo di battaglia, così non aiuti i tuoi coetanei depressi come te.