I natali del suo progetto solista sono qui: Dan Cavalca lo ritroviamo ora in questo suo nuovo progetto Ride The Noise e da poco, sotto questo moniker, pubblica un disco suggestivo come “Waves of the Mind”. Atmosfere sognanti, fluttuare è la parola d’ordine, corsi e ricorsi, ciclicità e mai soluzioni determinanti e fuori pista di dinamiche ostinate. È un disco che si libera e ci libera… puntanto i suoi synth dritti vero gusti retrò davvero affascinanti. Sono cellule di improvvisazione in fondo…
C’è un forte senso cinematico in tutto questo. C’è il cinema dentro la tua ispirazione?
Ciao, e grazie per l’opportunità di parlare del mio progetto artistico.
Fin dall’inizio del mio percorso come compositore e produttore, ho sempre avuto una naturale inclinazione verso la musica da film, o comunque verso una musica strettamente legata all’immaginario visivo. Ho avuto alcune occasioni di collaborare alla creazione di colonne sonore e jingle pubblicitari, dove appunto la musica si intreccia con la parte visiva.
In questo senso, il mio album può essere considerato una sorta di colonna sonora, anche se il film è immaginario. Molto spesso è la musica a suggerirmi delle immagini. Da quando ho iniziato a concentrarmi sull’utilizzo di synth trattati con riverberi, delay e tutti quegli effetti che caratterizzano il mio suono, si è aperto per me un canale verso una dimensione onirica. La musica mi evoca immagini tratte dai sogni: frammenti, scene sfocate, momenti indefiniti, ma sempre legati a emozioni profonde, tipiche del mondo onirico.
Hai pensato anche a scenari distopici per caso? Qualcosa che ha a che fare con la distruzione?
In realtà no, come dicevo, le emozioni e le immagini che mi vengono in mente sono più che altro impressioni: frammenti sparsi, sfocati, difficili da tradurre in modo preciso. Diciamo che l’attenzione è rivolta più all’emozione che ho provato in quel momento, piuttosto che a una vera e propria “trama” del sogno, se vogliamo chiamarla così. Forse alcuni momenti della mia musica possono evocare sensazioni negative, ma in realtà c’è sempre una sfumatura di ottimismo in ciò che vedo. O forse è più corretto dire che le immagini che mi arrivano sono come scene di osservazione: mi trovo a guardare ciò che accade, senza però una narrazione dinamica o lineare degli eventi. In ogni caso, non ho mai pensato nello specifico a scenari distopici, ma magari parlandone verranno fuori nei prossimi lavori…
Tutto fluttua senza mai risolvere in direzioni eccessive. Tutto resta in bilico. Perché questa sensazione?
Forse questa è proprio la domanda che vorrei fare al mio subconscio, ahah.
Posso dire che la parola “in bilico” mi piace molto. Il mondo è fatto di movimento, di energia, che in fondo è ciò che costituisce tutta la materia. E così anche noi: siamo immersi in un flusso eterno, che non si risolve mai del tutto. Penso che non esista una vera “risoluzione” delle cose. Forse è un bisogno tutto umano quello di volere stabilità, di voler vedere le cose ferme e definite… ma in realtà la natura è fatta di cambiamento continuo. È come se tutto fosse per sua essenza eternamente instabile — e io trovo questo aspetto profondamente affascinante.
Tutto ha anche un dialogo che sembra tornare, ciclico. Non sento in queste tracce la ricerca di mezzi e suoni particolari. Ho come l’impressione che scovati i suoni si sono poi scritti (anzi improvvisati) i brani. È così?
Diciamo che mi piace comporre musica in modo molto minimale, un po’ come accade nella musica da club. In molti sottogeneri della musica elettronica, infatti, la costruzione di un brano avviene per sovrapposizione graduale di elementi: ogni parte si aggiunge poco alla volta, come a costruire un edificio, pezzo dopo pezzo. In questo senso, tutto ciò che compare — dal synth principale alla parte vocale — una volta introdotto tende a ripetersi più volte, anche se magari viene modificato attraverso effetti, come se il suono iniziale subisse lievi trasformazioni ad ogni ripetizione. La ripetitività è sicuramente una componente fondamentale del mio modo di fare musica.
Spesso i suoni aprono delle dimensioni emotive che desideriamo rivivere più volte, a volte anche in modo quasi ossessivo… il tempo sembra cristallizzarsi, e tutto rimane sospeso.
A proposito di improvvisazione: com’è venuta dunque la scrittura finale? Oppure hai registrato “buona la prima”?
Nei lavori precedenti a questo album seguivo spesso un workflow tipico da producer: gran parte del lavoro veniva fatto al computer, dove l’editing e la performance si fondevano fin dal primo step. Ultimamente, invece, ho iniziato a separare un po’ di più queste due fasi. Prima c’è una parte di improvvisazione sul set: una volta che ho settato tutti i suoni in Ableton Live e microfonato la batteria, inizio semplicemente a registrare quello che succede. Per avere un’idea dell’evoluzione dei suoni e sentirli sovrapposti in tempo reale, uso una loopstation collegata alla scheda audio, da cui escono tutti i segnali. In questo modo riesco a preservare quella componente più istintiva e spontanea del fare musica. Solo in un secondo momento passo al computer, al lavoro con mouse e schermo, per sistemare e rifinire ciò che ho improvvisato sul set di batteria e tastiere.
Il concetto di “buona la prima” è sempre affascinante, soprattutto se lo contestualizziamo all’interno del genere musicale che pratico. C’è un’energia e un’istintività nelle prime take che, anche se imperfette, risultano spesso più interessanti e autentiche rispetto a quelle successive.
Per questo, cerco tendenzialmente di preservare il più possibile le take 1. Sovraincido solo quando qualcosa non mi convince davvero fin dall’inizio.