– di Assunta Urbano –
Per anni, Francesco Sgrò ha tenuto voce e canzoni segretamente chiuse in casa. A fare uscire lui e le sue opere dalla porta, dalla finestra e da ogni fessura disponibile, è intervenuto Andrea Ciacchini, suo attuale produttore artistico, che nel corso della sua carriera ha lavorato anche con gli Zen Circus e Motta.
Così, l’artista originario di Lucca e di adozione bolognese va a prendere aria fuori dall’appartamento e porta con sé il suo progetto. Arriva nel panorama discografico italiano con il pezzo “In differita“, poco prima del lockdown, che la scorsa primavera ci ha tenuto segregati tra le quattro mura. Periodo decisamente sfavorevole, ma, nonostante ciò, il videoclip, realizzato da Pietro Borzì e Giulia Conoscenti, riscuote un buon successo.
Dopo i primi apprezzamenti, il 18 settembre diventa disponibile all’ascolto “Le piante“. Fino ad arrivare alla più recente “Maledizione“, canzone pubblicata venerdì 22 gennaio e distribuita da Artist First.
Se i brani hanno conquistato il pubblico è stato anche grazie ad alcune idee innovative, con cui Sgrò ha saputo attirare l’attenzione sul suo lavoro. Proprio di questo espediente e delle sue canzoni abbiamo chiacchierato con il cantautore, a distanza telefonica tra Roma e Bologna.
Venerdì 22 gennaio è uscito sia in radio che in versione digitale il tuo nuovo singolo “Maledizione”. Di cosa racconta questa canzone?
Dando il mio giudizio da ascoltatore a distanza di tempo, mi sono accorto che c’è dentro un elemento di adolescenza. Incredibile, un dettaglio a cui non avevo fatto caso neppure mentre la scrivevo. Mi sono rivisto sul motorino di mio fratello, a quattordici-quindici anni. La canzone, comunque, ha quell’intento di allungare le mani e tenere tutti a distanza in qualche modo. È una forma di imprecazione, con lo scopo di allontanare le persone. Ha una voce poi abbastanza narcotica, così come lo è il suo arrangiamento. Mi verrebbe da dire, in un certo senso, che anche la pigrizia è una sorta di arma con cui affrontare questo tipo di situazioni. Ecco, sì, la pigrizia serve per contrapporre la frenesia e dire: “Fermi tutti, oggi sto in pace”.
È interessante che questa canzone abbia cambiato significato con il passare del tempo. Mi hai accennato alla voce, ma per quanto riguarda il lato musicale, invece, come nascono le atmosfere un po’ sognanti di “Maledizione”?
Io, Andrea Ciacchini, mio collaboratore e produttore artistico, e i musicisti ci siamo trovati ormai qualche anno fa a lavorare sul disco, di cui sono uscite fino ad ora solo poche canzoni. Passavamo ore ed ore insieme, chiaramente con delle idee precise in testa. Siccome, però, io stavo partendo da zero, sono stato uno che si è boicottato tantissimo. Pensa che neanche i miei amici più cari sapevano che scrivevo canzoni dal periodo adolescenziale. Questi pezzi, questo tipo di atmosfere, sono dunque la foto di un determinato ragazzo, che ha avuto difficoltà ad uscire. Si sente soprattutto nella voce narcotica, anzi, “domestica”.
Questa ultima parola si collega proprio a ciò che stavo per chiederti. Per quale motivo sei stato definito un “cantautore domestico”? Ti rivedi in questa visione?
La definizione ha a che vedere con il discorso che ti ho appena fatto. Avevo una voce chiusa in casa. Io stesso mi sono inimicato, tanto da non riuscire più ad esprimermi nella forma che avevo scelto per rappresentare la mia identità. Dopo aver finito l’università mi sono ritrovato davanti alla domanda: “e adesso?”. Non è tanto il problema di “che faccio?”, ma proprio del “io chi sono?”. Così, mi sono reso conto che la mia carta d’identità comprende la voce musica e senza questa non riesco a definirmi. Lì è iniziato un percorso devastante per me, perché tutte le paure che avevo di uscire, di emergere, di mostrarmi, si sono amplificate. Le canzoni che ho scritto sono quelle di chi ha messo in casa il suo desiderio e ad un certo punto ha scelto di portarlo fuori. Quando ascolto Francesco dall’esterno, sento che c’è una dimensione. La voce non è urlata, è un sussurro.
Tornando indietro ai tuoi due brani precedenti – “In differita”, pubblicato poco prima del lockdown primaverile, e “Le piante”, uscito nell’autunno dello scorso anno – entrambi hanno avuto dei video molto particolari. Quanto contano per te l’aspetto visivo e l’immagine legati alla tua musica?
Tantissimo. Proprio per questo motivo lavoro con Pietro Borzì, che è un regista e che ho scoperto essere anche il mio vicino di casa. Ci ragioniamo molto su questo aspetto ed è bello. Tutto ciò che è creativo mi interessa, perché è tutto da imparare. Poi, ovviamente lo sguardo di un regista è diverso dal mio. Mi incuriosisce tantissimo vedere che destinazione prendono le canzoni. Io, poi, credo fortemente che la musica sia inclusiva e che si tratti di qualcosa di corale. Sono ben felice di accogliere altri entusiasmi, altri pareri e altri occhi. Dei tre, il lavoro che abbiamo fatto su “Maledizione” è il mio preferito. Io difficilmente ho questo entusiasmo, ma in questo caso si tratta di qualcosa che mi piace.
Inoltre, poi, sia per “In differita” che “Le piante”, il tuo sito si è trasformato prima in un mini-gioco di love coaching e poi in una sorta di rivista botanica con annesso un test. Come hanno avuto origine queste idee? Ci racconteresti in cosa consistono?
Come ti dicevo prima, mi piace molto il lato creativo. Quando devi promuoverti e farti conoscere, in un clima come quello che stiamo vivendo ora, è una droga per me pensare a cose del genere. Mi diverto tantissimo. Quindi, sono nate anche un po’ per respirare. Ad esempio, per In Differita inizialmente avevo un’idea folle: volevo creare un sito di incontri. Io non ero mai uscito fuori come musicista e mi sembrava carino farlo così. Purtroppo, non abbiamo potuto farlo. Con i miei collaboratori artistici, Myriam El Assil e Carlo Alberto Giordan, abbiamo dirottato sul mini-game di love coaching. Potevi scegliere il tuo avatar, ma, anche facendo le cose in maniera diversa, alla fine tu fallivi sempre. Come nelle relazioni, è una tragedia. Dopo il primo, ci abbiamo preso gusto, e la gente l’ha preso bene. Nel videoclip de Le Piante il protagonista è questo Giorgio Faggion, che nella vita fa il fioraio. Così si è pensato di creare una sorta di rivista di botanica e di associare il test “Che fiore sei?” affidando per l’appunto un fiore ed una descrizione specifica ad ognuno. Quelle cose lì le ho scritte io e mi sono divertito da matti!
Mi sono ovviamente sottoposta ad entrambi, non avrei potuto farne a meno. Il test “Che fiore sei?” mi ha visto diventare una graziosa peonia. A questo proposito, dovendone attribuire uno a te stesso, ti rigiro la stessa domanda: che fiore sei?
Mi sono scelto il dente di leone, perché la mia difficoltà è conciliare due lati che ho. Tutti abbiamo al nostro interno più lati. Giovanni Truppi in “Il mondo è come te lo metti in testa” canta proprio questo.
Hai toccato un tasto dolente…
Beh, lui è un idolo! Numero uno assoluto.
Quindi, basandoci sullo stesso concetto, anche io ho due Franceschi ed è difficile non farli cozzare. Il dente di leone vede sia quando tutto fiorisce, ed è giallo, sia l’esatto opposto. Ecco, mi piace essere associato a quel fiore lì.
Ci salutiamo con un’ultima domanda riguardo al tuo ultimo singolo pubblicato: qual è la cosa che più ti fa esclamare “Maledizione”?
Cavolo! La cosa che più mi fa imprecare è sicuramente quando le persone non riescono a darti spazio. Spesso mi capita di incontrare qualche persona, che parla tanto, non è interessata a me e mi usa soltanto come un suo tramite. Mi sembra di essere trattato come un bidone. Ecco, io impreco contro tutte le persone che non riescono a fare una sana raccolta differenziata dei propri sentimenti e buttano tutto il peggio addosso agli altri. Tutto questo mi fa urlare “Maledizione”!