– di Martina Rossato –
Tommy Kuti è uno di quei nomi che attraversano generi, confini e preconcetti. Nato in Nigeria e cresciuto in Italia, è rapper, scrittore, attore, comunicatore. È diventato noto al grande pubblico con la sua musica rap tagliente, con la partecipazione a Pechino Express e con il suo sguardo sempre originale su cosa significa essere italiani senza dimenticare le proprie radici. Dalla scena musicale indipendente alle pagine di un libro, dai social ai progetti sociali, Tommy racconta se stesso e la sua generazione con autenticità e simpatia.
Abbiamo bevuto un caffè in Porta Venezia, tra il caos dei clacson e qualche passante che ha riconosciuto e salutato Tommy.
Ciao Tommy! Piacere di conoscerti.
Piacere mio!
Come ci si sente ad essere riconosciuto dalle persone per strada?
A me diverte questo, tu non ci crederai ma io dimentico sempre di essere conosciuto. Mi fa sempre un bell’effetto, perché è come se fosse sempre la prima volta. Quando vedo delle persone in metro, al supermercato o al ristorante che fanno una scena isterica ci vuole un attimo poi mi dico «AH, è vero, ero in TV e mi hanno visto». Sempre una bella sorpresa!
La gente di solito ti riconosce per la musica?
Per un’infinità di cose! Ho recitato in teatro e alcuni mi riconoscono per quello, poi alcuni per Pechino Express, altri perché faccio musica o per il fatto che ho fatto delle canzoni con Fabri Fibra. Altri ancora seguono i miei video stupidi su TikTok. Posso essere un TikToker, un rapper, uno scrittore (perché ho anche scritto anche un libro), c’è chi mi ha visto al cinema, ho fatto di tutto [ride, nda].
Ci sono cose che ti piace di più fare rispetto ad altre?
In realtà ultimamente stavo realizzando che credo di essere un creativo puro. Mi piace svegliarmi, pensare a cose e scriverle, soprattutto. Che sia la musica, che siano dei post, che siano delle idee. Per esempio in questo periodo sto anche cercando di chiudere un’idea di film che voglio proporre. Mi piace creare cose e raccontare storie.
Posso chiederti che film? Se si può dire.
Vorrei fare un film che racconti in modo autentico l’Italia dei ragazzi di seconda generazione nel 2025, ma non visto dagli occhi di un sessantenne come in quasi tutti i film italiani, ma visto dagli occhi di persone come me. Perché mi è capitato spesso di fare provini, conoscere registi e rendermi conto che la loro idea di quotidianità di noi ragazzi afrodiscendenti è completamente scollegata dalla realtà. Una volta un regista, commosso, mi ha detto: «Tommy, stiamo raccontando le vostre storie, finalmente sta succedendo nel cinema italiano!» Il mio ruolo? Uno scafista che uccide la madre del protagonista. Capisci? Secondo lui, quella era la storia che più mi rappresenta. È proprio necessario educare le persone su quello che è la nostra quotidianità.
È un problema di rappresentazione, quindi.
Totalmente. L’Italia tende a pensare che la nostra quotidianità sia sofferenza e basta. Io mi sento fortunato, posso dire di essere africano e nigeriano, e i nigeriani sono statisticamente il popolo più felice del mondo. Se tu chiedi a un nigeriano come va, ti dirà sempre «Bene» e se le cose vanno male troverà sempre un motivo per sorridere. Quindi è come se in Italia l’universo nero venisse pensato o legato a cliché stupidi per ridere oppure alla disperazione e al dramma. La mia vita è molto sorridente, vorrei raccontare anche questo lato.
È un bellissimo modo di prendere le cose!
Sì! Un’altra cosa che mi fa strano è quando la gente vede i miei amici neri che frequento qua a Milano e si immagina che siamo connessi dall’Africa, ma in realtà siamo connessi dall’Italia. A volte non parliamo nemmeno la stessa lingua (io parlo yoruba), ma siamo connessi dal rap italiano. È difficile per l’italiano medio visualizzare questa cosa. Siamo appassionati di Fabri Fibra, di Marracash, di Guè e quando ci sentiamo parliamo spesso del rap italiano. Però la gente ci vede e si immagina che noi ascoltiamo musica tradizionale africana con tamburi [ride, nda].
È bello poi riuscire a mettere anche quell’influenza nella tua musica, però! Che tipo di musica ascolti o ti ha influenzato? C’è Fela Kuti, per esempio, nella tua ispirazione?
Assolutamente, ma in realtà sono influenzato da tutto ciò con cui sono venuto a contatto. Fela Kuti diceva che «La musica è un’arma», e per me è sempre stato così. La musica mi ha fatto conoscere, mi ha dato voce. Ad esempio, la gente ancora piange per «La prima volta che ho detto ti amo l’ho detto in italiano», mentre in una mia canzone dicevo «Fanculo i razzisti e quelli della Lega», e nessuno si è mai scandalizzato. In un altro contesto magari mi sarei beccato una shitstorm, ma nella musica la gente è più disposta ad ascoltare. È un modo per far passare anche messaggi forti. La musica aiuta a far andare giù anche le pillole più fastidiose.
E com’è stato il tuo primo impatto con l’Italia?
Io sono arrivato in Italia a due anni. Il mio primo ricordo della vita è in Val Camonica, con le suore. Quindi la mia memoria inizia già qui in Italia: l’Italia è il mio passato, il mio presente e futuro, almeno per un altro po’ di tempo. La mia storia è tutta italiana.
Hai vissuto anche all’estero, qual è stata un’esperienza che ti ha segnato?
Quando avevo 16 anni ho fatto un anno di scambio negli Stati Uniti. Da quell’anno sono tornato a casa con un’incredibile quantità di autostima. In Nigeria, il più figo della scuola è il più secchione, in Italia conta da dove vieni e quanti soldi hanno i tuoi. Lì invece la mia personalità è stata premiata: in America il figo è genuinamente quello simpatico, il più outgoing. Sono tornato con un’altra mentalità.
Musicalmente, invece, come ti senti oggi rispetto all’inizio?
Nella musica mi sento sempre uno studente. Ho più fiducia in me stesso, certo, ma sento di non aver ancora imparato abbastanza. Non so se sia una fortuna o sfortuna, ma ho la stessa curiosità dell’inizio, non ho mai smesso di esplorare. Sono partito con il rap italiano serrato di un certo tipo, ora faccio afro beats. E passare a fare la musica afro beats da persona che, anche se africana, è cresciuta in Italia, è una challenge, perché comunque devo usare la lingua italiana, adattarla e riuscire a trovare la mia formula. Ho capito che non posso fare questo genere nello stesso modo in cui lo fanno le persone nel mio Paese.
Il tuo ultimo singolo Big boy ha un significato preciso, giusto?
Sì, celebra il fatto che sono dieci anni che non ho un capo. Non stampo un CV dal 2014. Quando ho perso il mio ultimo lavoro ero in depressione, ma poi ho detto: «Proviamo a dare una chance al sogno», ed eccomi qui. Ora è uscita la mia canzone Big boy, che parla della mia vita e di varie cose, ma finisce sempre che le interviste diventano una specie di lezioni di sociologia tra me e il giornalista che vuole parlare di geopolitica, di socialità e di sociologia in generale. In realtà io ho fatto una canzone in cui celebro il fatto che sono dieci anni che non lavoro per qualcun altro e che non ho più un capo. A volte è fastidioso perché è come se, quando provo a far passare altri messaggi, tutta quella parte di impegno sociale prendesse il sopravvento.
Che rapporto hai con Milano e in particolare con Piazza Napoli?
Piazza Napoli è stato il mio primo approdo a Milano. Vivevo con i miei amici e avevamo mille sogni, volevamo fare musica, vivere d’arte. Era un periodo bellissimo, di libertà e felicità. Paradossalmente, guadagnavo meno, di certo nessun passante mi riconosceva per strada, ma tutto sembrava possibile. Quella fase mi ha segnato più di molte cose che sono arrivate dopo.
Ci sono stati momenti duri?
Assolutamente. Nel momento in cui ero più conosciuto, nel periodo subito dopo Pechino Express, la mia major non ha rinnovato il contratto e mi sono travato a dovermi muovere da solo nell’industria musicale. Mi sono trovato da solo, spaesato. Per un anno o due non ho quasi pubblicato nulla, non me la sentivo. Ma ho imparato che dovevo essere io stesso la mia RedBull, la mia motivazione.
E ora sei indipendente?
Sì, ho imparato a muovermi, a gestire tutto. Certo, in una major ti pagano le promo e ti mettono nelle playlist, ma alla fine il pubblico non sa nemmeno se sei major o indie. Quando un mio amico mi ha fatto notare questa cosa la mia vita è svoltata, ho ripreso a fare musica con un altro spirito: le persone vogliono solo che tu faccia uscire buona musica. E io lo facevo anche prima della major, è bastato riprendere a farlo.
Hai detto che vorresti essere una guida, un fratello maggiore per altri. Che intendi?
Ho imparato tutto da solo. Nessuno mi ha davvero preso per mano, a parte qualche consiglio da Fabri Fibra, che è veramente un amico. Spero un giorno di condividere tutto ciò che ho imparato, aiutare altri come me a costruirsi un loro percorso, il mio impegno nella musica è sempre stato collettivo. Al momento una persona che si chiama Abdul ha certamente più difficoltà a farsi strada di una persona che si chiama Gianluca o Lorenzo. Il mio viaggio ora è aiutare i vari Abdul, Fatima, Gibril a godere delle stesse possibilità di cui possono godere Lorenzo, Anna e Fabrizio.