La diatriba tra le band di musica originale e le tribute è, nel nostro Paese, tanto storica quanto sterile.
Provate ad immaginare: siamo in Italia e due musicisti si conoscono , dopo le presentazioni di rito uno fa all’altro: “Grande! Suoni la chitarra, cosa fai tribute o musica originale?”. Questa comune domanda che per noi sembra normale ed a cui è normale rispondere, rappresenta a pieno la situazione disastrata che sta vivendo la musica, intesa come nuove proposte, nel nostro Paese. Premetto che quello di chi scrive è il punto di osservazione di un musicista che ha viaggiato moltissimo all’estero: per turismo, ma anche per suonare in tour con la propria band. Queste esperienze mi portano ad affermare con discreta cognizione di causa che in paesi come Stati Uniti, Giappone o Inghilterra tale domanda non ha ragione di essere formulata. Intendiamoci, il fenomeno tribute band in quei luoghi esiste, ma vista la loro pressoché trascurabile presenza è normale e fisiologico prodigarsi per comporre e suonare pezzi propri fin dall’adolescenza. Tengo a premettere che il mio punto di vista non è a priori contro le tribute ma sono dispiaciuto e deluso della loro proliferazione nella nostra penisola. Mi spingo oltre dicendo che l’indice culturale ed artistico di un Paese è anche in piccola parte inficiato negativamente da tale eccessivo radicamento. Non è un caso che soprattutto da Stati Uniti ed Inghilterra giungano le maggiori e migliori proposte rock da cui attinge il resto del mondo; ciò sarà in minima parte collegato al fatto che lì le band suonino quasi esclusivamente per creare musica e non solo per eseguirla?
Facciamo però un passo indietro. Quante volte, tra musicisti e addetti ai lavori, si ascoltano i più disparati discorsi sull’assenza di buone strutture, di considerazione per il musicista, e su un potenziale pubblico insufficiente a sostenere un mercato musicale che esuli dai talent show e da Sanremo? Tutto vero ma è bene chiedersi che cosa facciamo noi per cambiare la situazione, specie considerando che prima di lamentarsi e criticare è sempre raccomandabile fornire un buon esempio. Nel caso del musicista, questo significa avere – o meglio riscoprire – un vero e tangibile ruolo etico-artistico; in sostanza, attraverso il proprio operato, prima trasmettere un messaggio agli altri e solo successivamente esprimere la personale opinione al mondo intero. Aggiungo anche che a volte le performance delle band di musica originale sono così di basso profilo da non essere certo un incentivo a vederne i concerti: di qui la necessità di un impegno dei musicisti anche e soprattutto in questa direzione, rifacendosi non alle canzoni ma all’attitudine, ai metodi e alle scelte delle rock band internazionali, nella scia di un’emulazione per una volta sana e positiva.
Parlando con numerosi musicisti che prestano il loro talento nelle tribute, ho chiesto loro cosa li spingesse ad impegnarsi – spesso strenuamente – nel tramutare se stessi in autentici cloni dei propri idoli, a comprarne gli stessi vestiti, le stesse chitarre ed a ricalcarne gli stessi suoni. Le risposte sono state molteplici: in primis, la passione e l’amore verso l’artista tributato. In seconda e terza battuta il fatto di avere più audience (ricordiamoci sempre che siamo in Italia) ed il fatto di essere meglio retribuiti e ricevere miglior trattamento dai locali, spesso con criteri mai disgiunti dalla “solita” ricerca di quantità di pubblico. Ho sempre personalmente risposto che la passione verso un artista si può dimostrare anche in altri modi come ad esempio eseguendo una cover di un suo brano da inserire nel repertorio della propria band. Invece, in relazione al pubblico, mi permetto di dire che da musicista preferisco suonare davanti a cinquanta persone curiose di ascoltare qualcosa di nuovo che davanti a trecento osannanti non me ma l’idolo che rappresento in quel momento. Infine, relativamente all’aspetto economico, mi chiedo se sia veramente il caso di vendersi per cento euro a testa al mese o giù di lì, senza poi tener conto di tutte le spese tecniche; il fatto di “camparci” è una illusione che riescono a concretizzare in pochissimi.
Non voglio con questo negare il lavoro meticoloso necessario a mandare avanti una tribute ma dietro spesso c’è la logica del tutto e subito; di contro esiste un gradino che non si potrà mai superare, quindi è come giocare al semplice “gratta e vinci”. La scelta di proporre musica originale, invece, appare più simile a quella di chi punta tutto su un numero: le probabilità sono contro di te, ma se si vince la vita cambia radicalmente. Vorrei inoltre osservare che ogni musicista racchiude in sé tre ruoli: l’esecutore, il compositore e l’arrangiatore. Mentre per le tribute è richiesto solo il primo, per gli originali è d’obbligo mantenerli tutti vivi. Ai soli amanti dell’esecuzione mi piacerebbe suggerire un maggiore e più coraggioso supporto per i progetti di musica originale, possibilmente senza l’ossessiva attenzione alla retribuzione. Non ci dimentichiamo che parlando di musica parliamo di un’arte della cui essenza e del cui significato i musicisti in qualche modo ne sono i custodi. Il riconoscimento economico indica se le tue canzoni o il tuo spettacolo è vendibile o meno, ma lo fa in modo inevitabilmente consequenziale alla propria ispirazione: in caso contrario siamo di fronte non più ad un’arte, ma ad un prodotto. È un discorso idealistico, forse retorico, indubbiamente ripetuto molte volte. Ma in quante occasioni anche noi musicisti, parlando del nostro album appena uscito, ci ritroviamo inavvertitamente ad utilizzare proprio il termine “prodotto”? Non è drammatico tutto ciò?
Naturalmente, nell’analizzare la questione non va dimenticato che in gioco ci sono altre due importanti figure come il pubblico e il locale. A mio avviso il primo , in un meccanismo governato sempre più da logiche legate al denaro è quello che, pur spesso non consapevolmente, ha maggior potere. È palese che chi va a sentire un tributo quasi mai è aperto a fruire di musica che non conosce per una serie di motivazioni: si può cantare a squarciagola ogni brano, si può a volte chiacchierare poiché non si perde il filo del concerto e si balla nella sicurezza di ciò che ci si aspetta. Ma se penso a quanto per me il valore della curiosità sia fondante per lo sviluppo culturale di ogni tessuto sociale, non posso non sperare in un’Italia in cui l’ascoltatore, anche pagando il biglietto, sappia premiare tanto il coraggio del locale che propone sconosciuti quanto – soprattutto – quello della band che ha creato qualcosa che non esisteva prima. Questo è l’unico modo per favorire novità, ricambio e crescita del profilo musicale del nostro Paese.
Già, ma come il pubblico può cambiare questo meccanismo? Oltre che dai musicisti, un simile risultato può essere avvicinato anche da quest’ultimo attraverso piccole, ma significative forme di “boicottaggio”. Non fanno forse bene quelli che non comprano cosmetici testati su animali o prodotti non riciclabili? Per non parlare dei boicottaggi avvenuti contro alcune multinazionali di carburante o alcune aziende che sfruttano il lavoro minorile. Perché non consapevolizzare il proprio potere d’acquisto anche per l’arte?
Punto finale di questa panoramica è il locale che in questo gioco ha le mani più legate di altri. Infatti nasce prima di tutto come attività commerciale in un Paese dove la pressione fiscale non aiuta di certo a decollare. Ma questo non può sfociare in un alibi poiché se decide di proporre concerti dovrebbe avere anche una grande attenzione ad altri aspetti. Non a caso alcuni gestori si affidano a “direttori artistici”, che per definizione ricoprono un ruolo decisionale fondamentale; da essi dipende la qualità della programmazione in termini di originalità. Auspichiamo più coraggio e più selezione, alla lunga sono certo che i risultati si vedranno. Se tutte le parti offriranno un contributo anche minimo, il processo sarà lento ma inevitabile. Forse un giorno potremo ritagliarci un ruolo internazionale simile a quello che ricopriamo in settori come quello della moda, del calcio o dei motori.
Claudio “Zephiro” Todesco
P.S.: Un ringraziamento speciale va a NoSlappers che dieci anni fa mi sensibilizzò per la prima volta su tale questione, a Francesco Chini e Chiara Macchiarulo per la collaborazione tecnica, a tutte le band di musica originale, al pubblico ed ai locali che credono nelle nuove proposte.
un bell’articolo pregno di verità… purtroppo siamo in tanti a pensarla esattamente in questo modo, ma riuscire a portare il pubblico di una tribute band è ancora impresa impossibile… Il pubblico italiano vuole ascoltare cose che già conosce, troppa fatica mettersi a sentire quello che ha da dire una band di perfetti sconosciuti…
Ma infatti chi se ne frega di ciò che vuole ascoltare la gente ….la musica è il linguaggio del nostro cuore …io suono per me non per gli altri ….Come diceva il nostro amico prima meglio suonare davanti a 6 persone curiose della tua musica che davanti a 300 fomentati per l’idolo che tu rappresenti in quel momento …per me è essere privi di personalità
Tutto condivisibilissimo.
Grande Claudio!
Mi piace molto il tuo approccio NON polemico all’annosa questione…..
Gli interessi in casusa sono molteplici, ma l’impegno di ognuna delle parti in causa e’ fondamentale!
Ci potrebbe essere spazio x tutti, ma sicuramente si dovrebbe aver maggior “coraggio” nel proporre e nell’educare il pubblico a cose nuove!!!
Come dici tu, il processo e’ un po’ lento, ma se mai inizia, mai si cambiera’ lo stato delle cose…….
Rock on!!!
Flavia
apro l’articolo credendo di trovare un’immondizia…invece rimango incollato e mi trovo d’accordo su ogni punto. Poi arrivo alla firma….se avessi subito visto che l’avevi scritto tu, non avrei avuto il dubbio iniziale.
grande!
Mi ha sempre colpito come spesso il livello tecnico individuale di una tribute band viene considerato più alto. La tecnica è soprattutto imitazione, e chi scrive ed esegue pezzi propri sa bene che farlo non è altro che “imitare se stessi”. Quando un buon songwriter ha un’idea musicale il più delle volte è lontano dal proprio strumento, impegnato in altro o addirittura addormentato (cercate yesterday su wikipedia). Nel rendere “materiale” quell’idea, sia essa una melodia, un riff o una ritmica o una progressione di accordi o un pattern o un fill, strumento alla mano, si incontrano LE STESSE DIFFICOLTA’ tecniche nel suonarle di chi suona BRANI SCRITTI DA ALTRI. Si deve IMPARARE A SUONARE quell’idea per la prima volta, trovarne la chiave (se come me siete dei poveri disgraziati senza l’orecchio assoluto), si deve creare un’arrangiamento che tenga e che ne evidenzi l’importanza, si deve prevedere il feedback del pubblico. Creare musica originale non significa avere un livello tecnico inferiore. Semmai superiore. Ma soprattutto significa avere la capacità di finalizzarlo. Non è chi ha una band originale il “wannabe”, come specificano la maggioranza dei “tributisti”, è piuttosto il contrario. Detto da uno che adora suonare cover in modo assolutamente, fondamentalisticamente e ottusamente pedissequo. Grazie Mr. “Zephiro” Todesco per aver sollevato la questione, questo articolo dovrebbe essere indicizzato da google, altroché
purtroppo la musica e’ ferma causa di questi soggetti che vogliono sentire sempre la stessa roba cosi come il cinema la televisione eravamo i primi su tutto il mondo ci guardava affascinato basti pensare che negli anni 60-70 e lo dico da figlio di musicista mio papa ex “punto-rovescio medaglia” prima si ispiravano a i grandi per poi mettere in pratica con le loro idee proponendo cose nuonve e c era migliaia di band che suonavano nelle “cantine” e in alcuni locali oggi c e solo la brutta storia del rieseguire la canzone di………..senza aprrezzare se il musicista ha creativita o meno perche nn fa altro che fare l esecutore dell artista in questione bisognerebbe partire da i locali….!