di Chiara De Luca
“Uno”, uscito il 1° aprile per l’etichetta 29Records, è il quarto album da solista di Emanuele Colandrea, cantautore originario della provincia di Latina. Da anni presente sulla scena nazionale come autore, chitarrista e cantante di band come Cappello a Cilindro ed Eva Mon Amour, esordisce come solista nel 2015 con l’album “Ritrattati”.
Per il nuovo progetto ha scelto di essere il protagonista assoluto nella fase di produzione e creazione, chiudendosi in studio e scrivendo, suonando, arrangiando, registrando, mixando e masterizzando da solo. Ed è forse per questo motivo che, ascoltandolo, si ha la percezione di intraprendere un viaggio nella sua testa, all’interno della quale la sua voce traghetta chi l’ascolta, cullato dalle melodie pulite e morbide. Il tutto all’insegna di franchezza, freschezza e profondità, dove Colandrea, viaggiatore solitario, si addentra in territori folk. Insomma, “Uno” è un vero e proprio album, dove le 13 canzoni coesistono in modo omogeneo e ben assortito, senza dare la parvenza di star ascoltando una casuale raccolta di canzoni.
Ne abbiamo parlato in una calda mattina di maggio, dove vita privata e artistica si sono fuse, donando tridimensionalità e creando un clima intimo e accogliente. E spero che proprio questo clima possa accogliere anche voi.
Uno, il tuo nuovo lavoro, è scritto, suonato, arrangiato, registrato, mixato e masterizzato da te. Parlandone, hai detto «Uno è la regola non scritta con cui è stato concepito il disco, è il numero dell’istinto, del “buona la prima”, di un giorno alla volta, un’ora alla volta, una canzone alla volta, una volta alla volta. Mi piace poi pensare che sia anche “uno nel caso” piuttosto che “uno a caso”, “uno nei tanti” piuttosto che “uno dei tanti”. […] Uno è la regola non scritta con cui è stato concepito l’album, il numero dell’istinto, del “buona la prima”, di un giorno alla volta». Qual è il tuo numero uno?
Il mio numero uno è la mattina. È il momento dove inizia tutto. Sono già un po’ di anni che sono sul filone della mattina presto, ho scoperto questo magnifico mondo in cui il cervello è più giovane, quindi mi risulta più facile realizzare.
Una delle tue nuove tracce è Siamo Fatti, che è un inno a non sentirsi importanti. Qui mi sorge spontanea una domanda: di cosa è fatto Emanuele? E soprattutto: la persona combacia con l’artista o i due mondi restano separati?
Io cerco di farli combaciare alla perfezione, in realtà. Anche perché secondo me non c’è un altro modo di fare l’artista. C’è l’arte che deve essere una conseguenza di quello che sei, in generale. In generale, non amo il trucco e il parrucco che si usa. Sicuramente capisco che è spettacolo anche quello, ma io non lo saprei fare, lo lascio fare ad altri che magari se lo sentono addosso. Perché io la vedo come una forzatura, ma magari per altri non è così. Quella è la conseguenza di come sono fatti loro, e va benissimo.
Riallacciandomi a questo discorso, mi piacerebbe sapere qualcosa di più circa la costruzione delle tue canzoni. Ascoltandole, sembrano sempre dei racconti tra il malinconico e l’ironico. Da dove viene l’idea della canzone? Viene prima il bisogno di raccontare un’esperienza personale, un testo, una melodia?
In realtà io cammino di pari passo. Poi una cosa che dico sempre anche nelle interviste che faccio è che a me non piace parlare separatamente del testo e della musica. In realtà sono un ascoltatore di musica per il risultato finale delle canzoni. Non sono un appassionato del significato dei testi. In realtà non si direbbe, ma non perché io scriva bene, ma perché magari scrivo tanto. Però preferisco come suonano i testi. La mia passione è per il suono più che per il significato. In tal ottica, cerco di andare di pari passo nella creazione di testo e melodia. Inoltre, non ho problemi nel rimettere mani, nel tagliare i testi o nel cambiare la musica proprio perché voglio raggiungere il risultato finale che mi piace e che, soprattutto, piaccia al mio stomaco. E qui ritorna in gioco il concetto di istinto e spontaneità, deve piacermi suonare qualsiasi pezzo. Quindi, cerco sempre di arrivare al risultato che sia più istintivo possibile.
Che cosa ti manca – se ti manca – dell’esperienza in band e cosa hai ritrovato magari nella solitudine del progetto solista?
Sono vite parallele. Diciamo che, per come io l’ho concepito con gli altri ragazzi della band, non era solo un suonare insieme, era proprio uno stare insieme. Il nostro rapporto umano veniva prima. Se dovessi dirti qualcosa che mi manca di una band, forse ti direi la condivisione totale a livello empatico di ciò che si sta facendo. Poi, ovviamente, lo stare in solitaria ti porta ad altri vantaggi, come il poter lavorare come e quando ti pare, nei ritagli di tempo che scegli autonomamente. Ognuno ha i suoi lati positivi… forse, della band mi manca la condivisione di quello che succedeva, nel bene e nel male.
La condivisione principalmente nella fase di costruzione di una canzone o proprio sul palco, nel vivere insieme quelle emozioni così intense col pubblico?
In generale, ma pure nel parlare di quello che succedeva sul palco, nel post concerto, o durante un’altra cena. Si tratta proprio di condivisione di vita. Più che una band, eravamo quasi un clan.
In un’intervista hai detto di credere nel vizio di protestare. In che modo la tua musica è anche una forma di resistenza?
Per quello che hai detto prima, se è malinconico e ironico allo stesso modo, secondo me è una forma di protesta. È portare i sentimenti, in quanto sono le prime cose politiche e sociali che esistono. Il nostro approccio con gli altri, come proviamo i sentimenti, il rispetto che c’è nell’aria quando siamo insieme. Quindi è un po’ resistere a dei canoni sociali e portare questo “quasi ossimoro” nella musica. Resistere a questa velocità che ci è arrivata addosso e che plasma tutto, anche i rapporti sociali. Con la tecnologia dovevano rallentare, eppure è successo il contrario, c’è sempre una scusa per non vederci e per non rallentare proprio perché ci si può sentire nei ritagli di tempo.
C’è una canzone che avresti voluto scrivere tu? E sì, perché?
Guarda, il perché non lo so, ma sono sempre stato innamorato di Atlantide, di De Gregori. È sempre stata una canzone che mi ha affascinato tantissimo. Poi ce ne sono molte altre, però è una delle poche canzoni che ogni tanto, sporadicamente, porto anche dal vivo, mi piace proprio suonarla. Quindi ritorna il concetto di come suona il testo con la melodia, il prodotto finale.
Hai un rituale prima di salire sul palco?
No, in realtà, però spesso mi faccio una Vecchia Romagna. Ovviamente mi do più una regolata adesso rispetto a prima, però un goccetto di brandy, se ce l’hanno, è anche difficile da reperire la Vecchia Romagna. È anche un liquore che è un po’ romantico nella mia vita, come fumarmi una MS, se capita.
Vorrei salutarti con una domanda sul tour invernale appena trascorso. Sei in prossimità dell’ultima tappa, prevista a Latina il 30 maggio. Qual è il ricordo più intenso che porterai con te di questo tour? E – se c’è – cosa avresti voluto vivere diversamente?
Comincio a risponderti dalla seconda. Voluto vivere diversamente forse niente, perché in realtà sono andato davvero con poche aspettative, con la freschezza di questo disco che a me piaceva tanto. Quindi ero abbastanza tranquillo e rilassato nel suonarlo. Poi, per quanto riguarda quello che mi porterò dietro, io ho provato a fare questo disco carico d’istinto e anche i live son venuti fuori così. Le persone più degli altri anni, più degli altri dischi, mi hanno parlato di questa cosa, di questa sensazione che arrivava anche al di fuori del palco. Di questa freschezza e franchezza del live.