di Riccardo De Stefano
Domenica 6 luglio è stata l’ultima data dell’ottava edizione di Videocittà. Un festival che, negli anni, ha saputo trasformarsi da evento curioso a vero e proprio rito collettivo per chi cerca nelle immagini e nei suoni non solo intrattenimento, ma anche e soprattutto una “visione”, un nuovo orizzonte da esplorare. E quest’anno – più che mai – l’ambizione di raccontare il presente attraverso i linguaggi del futuro ha trovato nella cornice del festival la sua grande esposizione pubblica.
Il Gazometro, passato dall’essere uno scheletro d’archeologia industriale a sorta di tempio neomoderno dell’ibridazione artistica, ha chiuso i battenti sotto una luce nuova, quella irradiata da Solar di Quayola, l’installazione monumentale e incandescente che ha restituito al colosso d’acciaio romano un’aura quasi sacra. Ma se Solar è stata la colonna vertebrale luminosa del festival, il cuore pulsante della serata di chiusura ha battuto nei minuti sospesi dello show audiovisivo di Dardust e Franz Rosati, un incontro che ha dato la giusta e emozionante conclusione a questa edizione.
Dardust – al secolo Dario Faini, classe 1976, da anni protagonista del pop italiano, ma anche della musica di ricerca – è tornato a Roma accompagnato da un trio di archi, circondato dal pianoforte e dalle sue tastiere. E la performance di ieri non ha fatto che confermare la direzione unica intrapresa dall’artista: un viaggio emozionale, profondo, senza retorica, dove il pianoforte non è mai decorazione ma nervatura viva del discorso sonoro. Dardust parte dal “piano nudo e crudo”, come lo ha definito lui stesso, ma attorno costruisce una macchina narrativa stratificata, dove ogni suono elettronico è corpo e ferita, non solo texture.
La performance è in collaborazione con Franz Rosati, noto per la sua ricerca sul suono generativo e sulle possibilità percettive dell’algoritmo, che non si limita a “colorare” l’esibizione, ma la plasma, la distorce, la rifrange. Gli elementi visivi – flussi astratti, mappe digitali di città immaginate, strati di brutalismo digitale – dialogano con i brani evocando i luoghi “messi in disparte” che lo show vuole raccontare: periferie reali e interiori, cemento e solitudine, margine e desiderio. C’è una bellezza fragile, una malinconia urbana che si fa canto sommesso.
Con la serata del 6 luglio si chiude così l’ottava edizione di Videocittà, ambiziosa e riuscita, che trasforma ancora una volta Roma in un palcoscenico tra passato e presente, industria e archeologia, mostrandoci cosa potrebbe essere il futuro. Un festival che ha dimostrato come Roma, quando vuole, sa ancora farsi avanguardia, crocevia di linguaggi e visioni. Se ogni edizione ha il suo simbolo, il 2025 avrà due: il sole digitale di Quayola e la ferita sonora di Dardust. Due modi diversi di dire la stessa cosa: che il futuro non va previsto, ma sentito.







