Marco Parente incontra Cattaneo (o viceversa, poco importa). Importa invece quale sia il risultato di una simile detonazione artistica. È un suono di quiete, di contemplazione, di “non-forma” canzone che si mescola alle opere visive di Jason deCaires Taylor e agli studi accademici sull’ambiente e sull’eco-sistema. Un cut-up, un collage, improvvisazioni, idee maturate, frammenti e quel sentire che trascende lo scopo commerciale e materico della canzone. È un esperimento, è un disco sensoriale e sensitivo questo primo lavoro omonimo dei Vulcani in Pace… il suono sembra cibarsi di quel che rimandiamo al mittente.
Comunque un ossimoro. Ovunque mi giro. Affrontiamone alcuni: parole comuni dentro allegorie e figure che disegnano qualcosa di etero, di altro, di lontanissimo dal quotidiano. Almeno così sembra…
Ho notato che s’insiste molto sul presunto ossimoro Vulcani in Pace. Eppure, nonostante ne abbia sempre fatto ampio uso(quasi abuso) nei miei testi, in questo caso specifico l’ossimoro non lo vedo così evidente, ma al tempo stesso non lo smentisco, sarebbe come inibire una possibile interpretazione. E non avendone io una da rivendicare, mi guardo bene dal contraddire la tua o quella del nostro ufficio stampa e di chiunque si esponga al riguardo. L’ho detto, non bisognerebbe mai parlare o ancor peggio, provare a spiegare una canzone, un quadro un film, un proprio atto o sfogo creativo che sia. Questo spetta alla critica, ai filosofi e al pubblico. E chissà che alla fine siano gli autori, poeti, artisti, registi a imparare qualcosa in più su ciò che pensano di aver creato. Lontanissimo dal quotidiano? Non credo si possa descrivere il quotidiano con il linguaggio del quotidiano, si finirebbe col banalizzarne il mistero.
E poi le parole, segno tangibile della natura umana. Eppure il suono viene dalle macchine, segno tangibile dell’alterità umana. Che natura viene fuori? Che tipo di equilibrio?
Quello del binario del treno: un viaggio parallelo, equidistante e soprattutto d’accordo nella direzione. Senza necessariamente avere una meta. Quello è il privilegio che spetta solo ai passeggeri.
Forse è il caso di svelare qualcosa in più sul modus operandi di questo lavoro: le composizioni strumentali di Paolo esistevano già così come sono prima che c’intervenissi io e avevano vita propria indipendentemente dal mio intervento. Dunque quello che è successo dopo, è esattamente ciò che succede in poesia e in natura, una parola accanto ad un’altra ne genera una terza. Ecco perché a quel punto c’è stata, evidente, l’esigenza d’inventare una nuova identità dietro la quale nascondersi: Vulcani in pace. Quello che sentite è il frutto di due nature ben distinte che viaggiano armoniosamente in parallelo, senza essersi mai incontrati fisicamente…ma solo col pensiero animato.
E poi: sono canzoni ma in fondo non sono canzoni. Sono visioni, paesaggi, in bilico, distopici… ha senso chiamarle canzoni?
Sì assolutamente! Canzoni in campo aperto. Ho sempre lavorato nell’ambito della forma canzone, col preciso intento di modellarla, sovvertirla, citarla, ricercarla, rigirarla, confonderla…eppure rispettarla. E mai come in questo lavoro ho avuto la possibilità di agire libero all’insaputa delle mie convinzioni, palafitte strutturalistiche. La sensazione che la ricerca non è affatto finita mi da ancora la scossa necessaria per insistere.
“Peace” è una canzone con una sola parola. No, penso anche io che non sia mai stata fatta… ma tutto il disco, anche se con parole diverse, è composto da paesaggi ciclici che tornano, ostinati, frasi che si ripetono. Sono pattern… o sbaglio?
Sì, l’idea del pattern è una esemplificazione piuttosto azzeccata, ci metterei accanto anche la parola ‘cocciuto’…ecco sì, sono pattern cocciuti. Però ci tengo anche a dire che in nessuna di queste parole c’è premeditazione, ho sempre approfittato dei momenti di distrazione da me per tirarle fuori. Per questo, intorno a tutte queste 9 composizioni, aleggia un’atmosfera di leggerezza, nonostante la mancanza di qualsivoglia punto fermo ritmico e strutturale su cui appoggiarsi e rassicurarsi. Senza vantarsene, per me queste nove ‘canzoni’ oggi come oggi, sono oneste e coraggiose.
Un disco decisamente visionario: avete pensato a lavorare proprio sul concetto di visione? Un video, un corto… qualcosa che magari possa includere le opere di Jason deCaires Taylor…
La parola visionario è ambigua e abusata, mi piace se applicata ad una visone del presente, meno nella sua accezione astratta. Ad ogni modo , sì! Ci stiamo pensando, partendo assolutamente dall’opera di Jason, che inaspettatamente ci ha concesso di usare.