– di Ilaria Coppola –
Sergio Andrei, classe 1997, è un cantautore nato a Milano ma cresciuto a Roma. Appassionato alla scrittura e alla canzone d’autore sin da piccolo, ha esordito nel 2018 con il mixtape Atelier e nel 2023 ha iniziato la sua collaborazione con Leave Music. Il 19 aprile 2024 è uscita la prima parte del suo album Hibakusha – Parte 1: Angoscia. In occasione di questa e in attesa della seconda parte, Hibakusha – Parte 2: Rivalsa, gli abbiamo fatto qualche domanda.
È uscita la prima parte del tuo nuovo progetto musicale Hibakusha – Parte 1: Angoscia. Le due parti del progetto sono separate anche in termini di tempi di uscita. Come mai? Che idea c’è dietro l’attesa tra la prima e la seconda parte?
Si, in realtà questa è un’idea che è arrivata nel mentre, scrivendo e facendo il disco, nonostante il titolo fosse già stato deciso in precedenza, che era l’unica cosa certa del concept da cui volevamo partire. La divisione del disco in due parti mi ha aiutato anche in questo, mi ha dato la possibilità di trovare una chiave diversa. Il primo l’ho chiamato Angoscia, il secondo Rivalsa: uno è blu, l’altro è rosso. Rivalsa in realtà è in continua scrittura.
Che collegamento c’è tra la parte blu dell’angoscia e la parte rossa della rivalsa con la tua vita? C’è più blu o rosso in questo momento?
Mi piacevano come titoli – Angoscia e Rivalsa – legati ad Hibakusha. In realtà l’angoscia fa parte delle canzoni, con l’angoscia ce le scrivi, con la voglia di evadere, mentre con la rivalsa è molto più difficile farlo. Quindi è più ardua da scrivere la rivalsa, mentre l’angoscia è sempre presente e secondo me è anche terreno fertile.
Quindi ci sarà del blu anche nella parte rossa…
Esatto, sempre [ride, nda].
Il titolo è Hibakusha, che è un termine giapponese che si usa per indicare le persone sopravvissute al bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki. Perché hai scelto proprio questo termine come titolo? C’è un messaggio riguardo questo che vuoi dare con i tuoi brani?
È sicuramente un titolo impegnativo, non ero sicuro di volermi assumere la responsabilità di questo termine così “importante”, ma una volta ho ascoltato un podcast che parlava dell’hibakusha e di come le persone colpite cerchino la propria individualità, di come cerchino un modo per non essere associati unicamente alle ferite per raccontare se stessi e ciò che sono indipendentemente da tutto. Sentendo questa cosa mi ci sono ritrovato molto: il voler andare oltre le ferite. Nonostante sia un termine impegnativo l’ho trasformato in qualcosa di più intimo e personale.
Quindi essere riconosciuto per la tua musica, principalmente?
Si, mi interessava spiegare il passaggio da persona ferita ad “altro” perché le ferite rischiano di ingabbiarti, quando invece vuoi anche essere altro.
Nei tuoi brani parli anche del disagio di non riuscire a trovare il proprio posto in una società dove nulla sembra essere abbastanza. Come mai tra i giovani questo disagio oggi sembra essere così comune?
C’è un disagio molto condiviso e ci sono mille motivazioni per questo. È un’epoca particolare, in cui l’umanità ha anche un contatto un po’ strano, quindi ci si isola tanto, ci si guarda tanto dentro, ma magari in maniera superficiale, e fuori c’è questo alone di incertezza che comunque… angoscia [fa riferimento al titolo della prima parte del suo disco, nda].
Però quanto ti “aiuta” questo disagio nella tua musica?
A me personalmente tantissimo, cioè, io ricerco quello, la maggior parte della volte. Anche se comunque mi piace fare anche qualcosa in un mood più spensierato e allegro, che indica proprio la trasformazione del disagio. Alla fine quello che mi fa scrivere sono proprio le domande che non sai a chi fare, quando non sai a chi chiedere magari provi con una canzone a darti la risposta.
Il primo brano si chiama Rockstar che nonostante apra la parte blu, legata all’angoscia, sembra concludersi con un messaggio di speranza. Come mai questa scelta?
Si, Rockstar è il primo pezzo che mi ha fatto entrare in questo nuovo disco. È proprio il pezzo in cui io descrivo tutte le ferite di parte della mia vita, le abbraccio e dico: «Adesso andiamo»! Quindi è stata anche una canzone nata da tanti anni dallo psicologo [ride, nda]. Le mie canzoni in realtà sono sempre arrivate grazie al mio psicologo perché non ho mai avuto quella convinzione secondo la quale la musica ti fa da terapia come sostituzione a questa. Anzi, proprio la terapia mi ha dato un sacco di spunti.
Che tipo di reazioni emotive ti aspettavi di suscitare nei tuoi ascoltatori? Hai avuto dei feedback coerenti con quello che ti aspettavi oppure sono stati più inaspettati?
In realtà questo è un periodo in cui è difficile percepire l’ascoltatore, l’ascolto è dispersivo, si perde nel web quindi non riesci a viverlo direttamente. Ho fatto un release party perché comunque tra “pochi ma buoni” è bello stare insieme e “dirselo in faccia”, ma non ho una percezione totalmente chiara di quello che è il feedback.