di Riccardo Magni.
Era l’ultimo pomeriggio di Sziget, quello del 14 agosto, quando sono saliti sul palco del Lightstage i Siberia. Erano le 15 passate e faceva caldo, nonostante il sole non fosse spietato come nei primi giorni. Ma gli “abitanti” dell’Isola ormai erano temprati ed appena poco prima, gli España Circo Este avevano abbondantemente fomentato il pubblico.
Quello che ne è venuto è quindi stato un concerto senza dubbio particolare, visto il contesto, ma vissuto in pieno dai presenti, molti dei quali chiaramente fan italiani della band livornese, ma non solo. Perché una delle certezze acquisite sullo Sziget Festival è che può vantare un pubblico aperto e curioso, oltre che numerosissimo. Niente di troppo sorprendente quindi, se qualche “szitizen” (i “cittadini” dello Sziget, simpatico appellativo che si incolla a tutti i partecipanti, specialmente alla moltitudine di campeggianti) passeggiando nei pressi del live di una band anche sconosciuta ma brava, possa fermarsi ad ascoltare. Ed i Siberia sono bravi.
Poi, dopo averci fatto cantare e sudare (il sottoscritto rientra nella categoria sopracitata dei “chiaramente fan italiani”), Eugenio Sournia e soci, birretta in mano, hanno risposto alle nostre domande.
Da sotto il palco, il concerto è sembrato molto carico, molto intenso, anche meglio di altri già visti in Italia.
Davvero? Che strano! Pensa che siamo saliti sul palco in modo molto improvvisato, ma è bello che il pubblico non percepisca mai un live allo stesso modo in cui sembra a noi sul palco.
Sapevate di venire in un contesto particolare, forse il festival più grande in Europa?
Sicuramente, al di là di quelli britannici come Glastonbury, Sziget è il nome che quando dici “festival” viene in mente. Non abbiamo avuto molto tempo per girare prima del live, ma anche senza vedere il main stage la vastità del contesto si percepisce subito.
È un vero contesto internazionale, ma quanto è bello ritrovare qui, tutti insieme, anche molti dei fan che vi hanno seguito in date diverse in Italia?
È stato sorprendete! È una piccola tribù, anche al di là dei soliti luoghi noti, c’è una piccola tribù che ci segue. Le persone ci hanno fatto un sacco di congratulazioni. Alle date italiane magari suoniamo davanti a più persone, ma essere associati a questo evento è comunque foriero di buone notizie, abbiamo la sensazione di un riconoscimento.
È bello anche vedere che c’è un pubblico italiano che si muove per l’Europa, viene a vivere la musica, si fa una settimana piena di festival e vede tutto quello che viene proposto.
La barriera la linguistica può essere penalizzante ma può mettere anche curiosità. Ascoltare musica in una lingua che non conosci può essere stimolante, a me succede con la musica sudamericana. È un contesto in cui la mente è aperta, questo ci hanno fatto vedere le poche ore che siamo stati qui. La nostra musica a livello di sound ha una vocazione internazionale, ci rifacciamo più ad artisti stranieri che italiani, è chiaro che c’è però un’atmosfera che accompagna la nostra musica che non è quella che si associa a questo tipo di palco. Prima di noi ad esempio, ha suonato un gruppo che incarnava meglio questa atmosfera festaiola e scanzonata (España Circo Este, ndc). Però è stato bello che anche un gruppo come i Siberia non sia stato percepito come fuori posto. Il linguaggio della musica è universale, è stato bello vedere persone straniere che si sono fermate ad ascoltare tutto il concerto, senza capire una parola.
Sul discorso dell’italianità e dell’esterofilia come vi piazzate, in questo momento in cui l’italianità sembra la cifra stilistica dei nuovi progetti? Siete un gruppo italiano ma avete anche un’anima wave, quindi come vi ponete rispetto all’italianità e l’afflato esterofilo della vostra musica?
Credo che se parliamo di testi, l’Italia sia la patria della canzone. È difficile trovare una qualità paragonabile all’estero a livello di ritornelli e di testi. L’italianità non deve però diventare una scusa per essere autoreferenziali, per guardare solo al passato, al nazional popolare, come avviene in politica, o quando gioca la nazionale di calcio. Non può essere la scusa per essere sempre De Gregori, Dalla, la Peroni, il mare. È giusto guardare all’estero per quanto riguarda i suoni, le innovazioni, il mood generale, che però si adatti alla realtà del nostro quotidiano, spesso provinciale.
In Italia si oscilla in maniera preoccupante tra l’esterofilia e l’italianità. Ad esempio i Baustelle sono un gruppo che riesce in modo efficace a mediare tra queste due tendenze. Nei versi ci sono delle caratteristiche che li identificano come italiani, però nel modo in cui utilizzano gli strumenti e i suoni, ambiscono a un respiro più internazionale. La mia ex mi disse che andò ad un loro concerto e si accorse solo dopo 20 minuti che cantavano in italiano. Il fonico magari non era un granché quel giorno (ride), però non sono stati subito identificati come band locale. Noi vogliamo inseguire un modello simile.
Avete presentato un pezzo come “nuovo” invece era uno dei più vecchi (“Sono stato io, colpa mia” ammette il bassista Cristiano Sbolci Tortoli). Qualcuno ovviamente c’è cascato (anch’io), ma nuovo materiale è davvero in cantiere, no?
Si era farlocco. Però stiamo lavorando, la scrittura è un processo lungo, uno scrive tanto poi fa una cernita. Siamo ancora nella fase alluvionale in cui raccogliamo più pezzi possibile. Io – racconta Eugenio Sournia – scrivo principalmente i testi e le melodie, mentre gli arrangiamenti e la produzione sono fatti in modo comunitario. Possiamo dire che io tiro fuori l’idea, tutto ciò che è poi la canzone finita viene sviluppato in modo cooperativo, da solo non ne sarei neanche capace. Ognuno ha i suoi talenti, altri nel gruppo meglio di me sanno costruire i pezzi. Siamo anche in un momento in cui ci stiamo affacciando timidamente a contesti professionistici, questo a livello creativo è stimolante. Quando sei davanti a un pubblico che non conosci, capisci meglio cosa funziona rispetto alla tua cameretta.