Strano mondo quello delle etichette indipendenti. La necessità di queste ultime di non mescolarsi con l’ambito mainstream, quello commercia(bi)le per capirsi, si è persa nei meandri degli anni ‘90.
Certo snobismo invece è rimasto, ma è un po’ come il tempo: dipende. Sta di fatto che oggi, con un gap economico tra le due macro-aree drasticamente diminuito, la purezza della specie non sembra più essere la priorità. Nulla di male a voler farci dei dindi, con ‘sta benedetta musica. Ma allora, forse forse, bisognerebbe rivedere qualche slancio indie-style ed arrendersi ai compromessi. Nel mio libro “Riserva Indipendente – La musica italiana negli anni Zero” (Arcana Edizioni) ho rivolto domande inerenti al ruolo delle etichette a molti artisti.
Parola alle band
Enrico Molteni dei Tre Allegri Ragazzi Morti ha ammesso candidamente che «tutto quello che abbiamo prodotto (con La Tempesta) non è mai stato a scopo di lucro». Dente – che vede la questione dall’altra parte della barricata – ammette che le sovrastrutture lo spingono ad avere qualche «obbligo in più. Ma ho sempre cercato di rimanere fedele al fatto che la scrittura non dev’essere obbligata». Insomma, tra le righe si legge che le etichette indipendenti, pur non essendo come le major, qualche pressione agli artisti la fanno. Non troppe eh, non inalberatevi subito. Si parla pur sempre di meccanismi atti anche a vendere. Mentre Bebo de Lo Stato Sociale dice che «Con Garrincha è stato naturale collaborare», Roberta Sammarelli dei Verdena sostiene: «Per noi essere con una major non è mai stato un problema. Con Universal ci siamo trovati molto bene, e nel corso di questi dieci anni abbiamo conquistato la loro fiducia».
Tommaso Cerasuolo dei Perturbazione ha vissuto in prima persona entrambe le esperienze: «Ti posso dire con una certa sicurezza che non lavorerei mai di nuovo con l’allora direttore artistico – e credo lo sia tutt’ora – di Emi. I responsabili si rimandavano le decisioni e ti rendevi conto che eri un cavallo che doveva correre subito, vincere le gare, che quello che era stato fatto su di te era un investimento a pioggia…». E aggiunge: «Dopo due mesi, quando scoprimmo di non essere stati selezionati per Sanremo, il direttore artistico ci silurò». Dopo questa esperienza traumatica i Perturbazione tornarono sotto Mescal. La cui addetta stampa, Manuela Longhi, racconta: «Siamo stati gli unici ad avere due dischi in contemporanea nei primi dodici posti della classifica di Fimi/Nielsen: Ballate per piccole iene degli Afterhours e Appunti partigiani dei Modena City Ramblers». Ma gli exploit, tra le indie labels, raramente arrivano a varcare le porte delle classifiche d’alto rango. E spesso chi tira le fila delle etichette è solo o si fa aiutare da persone amiche, cercando di gettare più professionalità nel calderone. D’altronde arrivare a fine mese è difficile per tanti di questi tempi, in ambito musicale spesso assume i connotati di una chimera.
I numeri (da circo?)
Le vendite non sono, solitamente, eccezionali. Francesco Brezzi e Giuseppe Marmina di Ghost Records dicono: «Si va dalle 500-600 copie dei Green Like July alle 20mila e più copie di Dente con gli ultimi tre dischi». Matteo Costa Romagnoli di Garrincha spiega: «Le tirature dei dischi vanno dalle 500 alle mille, e se un gruppo ha una buona attività live in un paio d’anni vanno esaurite». Altro che Michael Jackson, insomma. Continuiamo l’excursus. Colasanti di 42Records va a decrescere, un po’ come le copie fisiche vendute negli ultimi anni: «Si va dalle 4000-5000 copie degli A Toys Orchestra alle 2000 di Cesare Basile, alle 1500 di Alessandro Fiori, alle poche centinaia degli artisti più piccoli». Mattia Boscolo di Unhip conferma: «Riusciamo a vendere il 70-80 per cento delle copie stampate tramite banchetti, mailorder, distribuzione classica». Gianluca Giusti di Trovarobato aggiunge: «Diciamo che dal canto nostro un buon successo potrebbe essere rappresentato da 2000 copie vendute da distribuzione e, soprattutto, concerti». Fosbury stampa 500 copie a titolo che vengono vendute in percentuali tra il “10 e 75 per cento”, mentre To Lose La Track punta molto sui download.
Che sia proprio questo il futuro del business musicale? Ne parlerò nel prossimo articolo…
Francesco Bommartini