È un’esperienza in bilico tra il suono vivo delle sue percussioni e il mondo digitale, fatto di elettronica e quel gusto internazionale. Il disco che ne viene fuori è potente: Bruno Genèro pubblica “Ekùn” e fa questo viaggio tutto “africano” con il grande producer e dj Alain Diamond. Una commistione agro-dolce che ci teletrasporta dentro un infinito e oltre, dentro quella sensazione di apolide appartenenza. “Ekùn” è oltre il suono. In vinile 180 gr. poi l’esperienza si rinnova in eterno…
Domanda spirituale: l’Africa quanto ha contaminato la scrittura? E non parlo di suono o di arrangiamento… ma proprio di scrittura del disco…
Sicuramente moltissimo. Viaggiando, ho scoperto che la musica rispecchia le culture, le tradizioni e la vita dei vari popoli. In Africa la comunità è più importante del singolo individuo, così le strutture musicali sono fatte di tante frasi semplici, di ritmi che, ripetuti in modo ipnotico, creano poliritmie, dando vita a tappeti armonici, dove cantanti o strumenti solisti, improvvisando, raccontano di imprese epiche o semplicemente fatti quotidiani. Questo concetto è la base della mia scrittura. In quel continente la Natura è forte, potente, a volte spietata ma anche dolce. Ho visto l’intangibile diventare tangibile, la linea fra sacro e profano sempre più sottile…
Una volta, partecipando ad una djinafoly (danza degli spiriti), un danzatore in trance, posseduto dalla Divinità, interruppe bruscamente la musica e, dopo poche parole, intonò un canto, una breve e semplice melodia. La cantante, per imitazione, riprese immediatamente quel canto e la festa continuò fino a notte fonda. Il giorno dopo, a casa della cantante, chiesi il permesso di sviluppare quella breve melodia in un brano e lei esultò di gioia! Così, nel 1996, quel brano divenne una delle 9 tracce del mio primo album “DABY B”, che deve proprio il suo nome alla cantante.
La pelle di un tamburo incontra il bit digitale di una macchina. Secondo te è questo il futuro? Oppure tra i due vince sempre la realtà?
Secondo me non esiste solo una realtà, ma diverse “separate e parallele”. Ci saranno sempre gli appassionati, antropologi e studiosi delle culture e folklori del mondo, o musicisti dediti a preservare le tradizioni. Io penso di essere nato per trasformare… è quello che ho sempre fatto. Con EKÙN, il linguaggio del mio tamburo, a tratti arcaico, incontra una forma, strutture musicali e suoni decisamente futuristici, amplificandone la sua espressività. Questa realtà è inevitabile, perché rispecchia le contaminazioni genetiche, che avvengono ormai da lungo tempo fra i vari continenti. Basti pensare al fenomeno del rap, nato negli anni ‘80 da artisti afroamericani, per le strade delle metropoli statunitensi. In Africa occidentale, i djeli (figure portatrici e creatrici delle tradizioni) facevano già le stesse cose secoli prima, usando l’improvvisazione come espressione, trasformandola in arte. Devo dire, per me è stimolante confrontarmi con un bit ed un click digitali!
Futuristica anche la copertina: da dove nasce? E per restare sull’argomento di sopra, non a caso solo gli occhi sono illuminati… la verità… o sbaglio?
Volevo un’immagine che rappresentasse il connubio tra la parte umana, legata al tamburo, e la parte “aliena”, vicina ai suoni delle macchine. Ringrazio il fotografo e amico Davide Carrari e il grafico Giorgio Cappellaro per le loro proposte e il lavoro creativo. In questa copertina mi sono ispirato ad un segno di IFA (antico sistema divinatorio africano, dal 2008 “Patrimonio Immateriale dell’Umanità” tutelato dall’UNESCO). OYEKU MEJI, il Re della notte, dice: la luce scaturì da una scintilla nelle tenebre. Gli occhi rivelano sempre l’essenza di un Essere… anche la musica racconta l’anima di chi la compone.
Il bene e il male: questo disco è intriso di tutto questo anche o sbaglio?
Essendo questo disco autobiografico, racchiude in sé alcune esperienze importanti della mia vita, alcune positive, altre negative. Proprio da quelle più difficili ho potuto trarre grandi opportunità e insegnamenti. Ancora una volta cito IFA, usando la parola composta “IRÉ ÀRO”: un male che porterà il bene. In EKÙN troviamo aspetti oscuri e luminosi, gioia, dolore, sofferenza e amore. Il bene e il male, secondo me, sono due facce della stessa medaglia, due energie che si contrastano e si attraggono allo stesso tempo. L’importante è riconoscerle e saperle canalizzare.
“Ekùn” in che modo ha modificato la forma e il modo di pensare alla musica di Bruno Genero?
EKÙN rappresenta quello che sono oggi. Nel mio primo album, “DABY B” (1996), ho descritto come in una fotografia il periodo che stavo vivendo, l’incontro fra l’Africa e Cuba, cercando di ricreare le atmosfere di quei mondi che hanno significato molto per me. Dopo aver ricevuto il riconoscimento dei Grandi Maestri nel 1999, alla “Prima Biennale Internazionale della Percussione” promossa dall’Unione Europea a Conakry (Guinea), nel successivo album “YIRI KAN – il suono del legno” (2006) ho reso omaggio al Mandé, il leggendario regno del tredicesimo secolo, da cui proviene il tamburo che suono (djembe).
Rispondendo come ad un richiamo profondo, la ricerca da sempre mi ha portato ad esplorare nuovi mondi. Con “EKÙN” ho voluto rappresentare me stesso non solo nei contenuti, ma anche nella forma. L’ausilio dell’elettronica, i suoni digitali e l’incontro con il dj producer Alain Diamond sono stati determinanti per la mia trasformazione. In studio ho potuto “vedere” la musica sullo schermo, interagire e apportare velocemente modifiche. Questo mi ha permesso di trovare arrangiamenti e atmosfere, che arricchissero ulteriormente i miei racconti di vita vissuta. Attraverso EKÙN ho cambiato il mio modo di pensare la musica, ho capito l’importanza della moderazione e della sintesi, del dire tanto, con poco.