– di Riccardo De Stefano –
Bisogna ammettere che certe formule, certi stili, non falliscono mai. Per carità, le produzioni hi-gloss del synth pop mainstream sono impeccabili ed efficaci, ma quello che una chitarra crunchy può trasmettere, anche da sola, non conosce paragoni. Certo, togliere e asciugare il suono può mostrare le mancanze artistiche di chi ha poco da dire e si nasconde dietro quella cosa strana chiamata “produzione”, o al contrario permettere di mimetizzarsi dietro l’idea che “non è fatta male, è lo-fi”.
Di certo, questo non tocca “Con i tempi che corrono” di Giuseppe Pagliarulo, il secondo disco del cantautore campano. Il primo pezzo dell’album si intitola, didascalicamente ma puntualmente, “Il primo pezzo”, biglietto da visita che ci introduce nel mood dell’album: dall’incedere garage rock e trainato da un riff efficace, serve a farci capire che Pagliarulo può essere preso sul serio in quel che dice, ma forse non fino in fondo. Poi sta a noi distrarci e buttare un occhio al cellulare o provare a capire cosa stia raccontando.
D’altronde, seppure ridotti gli arrangiamenti all’essenziale (basso chitarra e batteria), il disco regala una grande varietà di dinamiche, quando forti (come nei proto punk “Luce perpetua” e “Non riesco”) e quando invece capaci di accompagnare in arpeggio la voce senza nasconderla (come in “Sempre e solo”, a tratti struggente).
Infatti più che per comodità, la scelta espressiva di un “Folk-punk” è dichiarata nell’eponima traccia, sotto il minuto e a metà album, a mo’ di perno centrale intorno cui ruota tutto l’album: Giuseppe ha scelto il modo più efficace e diretto per raccontare con verve e simpatia il tortuoso mondo dei suoi pensieri interni.
E se sembra di sentire, qui e là, il Giovanni Truppi di “Il mondo è come te lo metti in testa” nelle dinamiche di chitarra e nelle metriche a volte serratissime, non corre mai il rischio di scadere nel “mi ricorda qualcuno”.
“Con i tempi che corrono” è un bel capitolo dell’alt rock nostrano, sincera confessione indie rock, ma di quello inglese e lontano dalla faciloneria dell’itpop di oggi. Un bell’urlo in faccia che sa prendersi sul serio, ma con la leggerezza di chi sa guardare il mondo con lo sguardo obliquo dell’ironia.