– di Assunta Urbano –
Il progetto da solista della musicista e cantautrice Irene Ghiotto prende il via nel 2010. Una delle tappe significative di questo percorso è stata senza dubbio la partecipazione alla 63esima edizione del Festival di Sanremo nel 2013, con il brano Baciami?.
Eppure la vicentina ha ancora altri pregi da svelare. A gennaio 2016 pubblica il primo disco, dal titolo Pop Simpatico Con Venature Tragiche.
Una nuova rinascita, forse più colorata, istintiva e diretta è segnata per questo 2019 nel viaggio di Irene. Il 25 ottobre scorso è uscito il nuovo lavoro SuperFluo. Non potevamo non farcelo raccontare dalla diretta interessata.
Il 25 ottobre è uscito il tuo nuovo disco di inediti SuperFluo. Un titolo particolare, soprattutto perché all’interno non vi è alcun brano omonimo. Come è nata quest’idea e cosa rappresenta la parola SuperFluo?
Allora, io sono sempre un po’ una schiappa con i titoli. È una cosa che ormai continuo a dire a tutti. Così come lo puoi vedere anche dal disco precedente, che si chiama Pop Simpatico Con Venature Tragiche. È un titolo piuttosto stravagante. Io stavo cercando una parola e mi piaceva l’idea che fosse una parola singola, visto che l’album precedente aveva questo titolo impronunciabile. Un vocabolo semplice, che avesse dentro di sé alcune delle caratteristiche che io rivedevo poi nel racconto, nella narrazione ed anche nei singoli brani del disco. È capitato un po’ per caso. Stavo studiando per un esame di Letteratura Polacca, poiché io mi sto per laureare in Filologia Moderna, la magistrale di Lettere, a Padova. Insomma, stavo studiando per questo leggerissimo esame di Letteratura Polacca e, leggendo un saggio critico, mi sono resa conto che la parola “supèrfluo” era separata per mandarla a capo. Nel leggerlo, mi sono ritrovata a ridere di me stessa, perché avevo letto “superflùo”. Non mi ero mai resa conto che nello spostare l’accento, quella parola lì prendeva tutto un altro significato. È come dire “àncora” e “ancòra”. Lì, però, sai che sono due parole differenti. A “supèrfluo” e “superflùo” non avevo mai fatto caso. Che bel contrasto! Qualcosa che è supèrfluo, non inutile, ma ornamentale, se non altro. Qualcosa che non ha uno scopo pratico. Così come è la musica, la mia soprattutto. Eventualmente può curare qualche cuore oppure peggiorare una situazione sentimentale. Insomma, è tutto ornamentale. D’altronde anche la bellezza lo è, però, fa bene all’anima. Mi sembrava di aver spinto molto su questa produzione un po’ fluorescente, colorata, giocosa. Il “fluo” è quella cosa che utilizzi per sottolineare le cose più importanti. Un bel contrasto ed una parola che, se interpretata bene, in qualche modo raccontava questa dicotomia che si trova all’interno del disco ed in fondo anche dentro di me. Mi pareva perfetto.
Beh, non si può dire che tu sia una schiappa coi titoli. Anzi.
Diciamo che il titolo è una cosa a cui io penso dopo. Sono collegamenti a posteriori, soprattutto per quanto concerne i titoli dei brani. Il mio disegno iniziale è più istintivo che razionale.
Mi preme sempre molto parlare con musiciste donne dell’argomento “quota rosa”. Questo tema l’ho percepito anche nel tuo pezzo Sotto A Chi Mi Tocca. Secondo te, cosa dovrebbero fare precisamente le donne per smettere di essere una categoria?
Questa è una domanda complicatissima. Ogni lotta dal basso, prima di arrivare ad uniformare, parte dalla definizione di un confine, di un luogo o di un gruppo di persone. Prima ti devi strutturare e devi dar voce ad una collettività. Questo significa anche creare una categoria. Chiaro che il cantautorato femminile non è un genere e le cantautrici non sono una categoria a sé. Lo ritengo, però, un passaggio quasi naturale. Quella cosa sblocca l’avvenimento di una miscela che poi ci unisce tutti e fa perseguire un diritto. Esserci, esistere, gridare la propria voce. Spero non ci sia più bisogno di dover sottolineare di essere cantautrici. Ci vorranno solo il tempo, la forza e – anche se è una parola grande – l’eroismo di chi ci mette la faccia per fare in modo che queste cose cambino, soprattutto per le generazioni successive. Le future cantautrici magari adesso sono ancora in fasce, ma tra dieci-quindici anni spero vivranno in un mondo musicale meno maschio-centrato. Dire che questo non è vero sarebbe una bugia. Non può diventare, allo stesso tempo, neanche un alibi. Proprio per tal motivo dobbiamo impegnarci. Non c’è altro modo che perseguire e dare il meglio.
Certo, assolutamente. Poi io abolirei del tutto la differenza tra uomo-donna.
Sì, però, viviamo in una situazione di passaggio in cui noi, come donne, dobbiamo ancora spingere.
Hai ragione. Devo ammettere che la traccia che preferisco all’interno di SuperFluo è Gli Ingegneri Delle Anime Umane. Mi ha intrigato la contrapposizione tra chi combatte e chi, invece, è solo un semplice spettatore della propria vita. A questo proposito, ritieni che un artista debba esprimere attraverso il lavoro un personale punto di vista anche riguardo l’ambito politico circostante?
Sì, nel senso che politica è tutto quello che noi viviamo, a partire dalle relazioni, fino allo stare bene con noi stessi e lavorare in e con un gruppo di persone. Politica non è solo come viene comunemente intesa. Allo stesso modo lo è banalmente decidere di autoprodurre un disco, metterci io i soldi, registrare in un determinato studio, con definiti collaboratori. Decidere come devono suonare i pezzi dalla prima all’ultima nota, per me è una scelta politica. Io decido di essere il capo del mio progetto e di provare a guidarlo in modo retto fino alla realizzazione.
L’argomento socio-politico è una cosa di cui parlo nella mia vita quotidiana, ma che tendo a non riversare lì nella scrittura. Altri musicisti, invece, l’hanno fatto e lo fanno ancora oggi molto bene. Quello mi è un po’ difficile, però, mi sento di dire che il mio gesto artistico è un gesto politico. C’è un’identità e quello è lo scopo principale per me. Comunicare chi sono e capire chi sono mentre lo comunico agli altri. Definirmi come essere umano trovo sia una cosa politica.
La penso allo stesso modo, senza dubbio. Piccola Apocalisse, un altro pezzo all’interno di SuperFluo, è veramente un flusso di coscienza. A mio avviso, è una traccia portante all’interno dell’album. Ecco, forse è un po’ il filo conduttore, perché mostra la tua esigenza di scrivere. Mi racconteresti del tuo modo di fare e creare musica?
Guarda, hai detto le parole chiave, che nessuno finora aveva colto: il flusso di coscienza. Io tendenzialmente parto dai testi. Se non ho qualcosa da dire con la parola, non costruisco attorno una musica. So che per altri artisti è al contrario il processo. Per me è così. Spesso uno degli esercizi che faccio, proprio per sbloccare la scrittura è lo stream of consciousness. Questo flusso di coscienza a volte diventa più un monologo interiore. Poi c’è la punteggiatura, la sintassi. Altre volte non c’è neanche un senso se mi rileggo. Lascio fluire e lo faccio proprio come terapia. Piccola Apocalisse è l’espressione esplicita ed esterna di quello che c’è dentro la mia testa. È un bombardamento costante di informazioni. È come il criceto in gabbia, magari lui sta fermo, ma ci sono tutti gli ingranaggi che continuano a girare. Per me è l’ultimo brano, anche se è il penultimo. È una specie di testamento, quasi di lascito. In qualche modo, il flusso del disco si conclude così, perché è come se chi ascolta possa vedere gli ingranaggi della costruzione della canzone. Ascoltando quel brano lì ti rendi conto di quello a cui stai assistendo.
Forse tutto questo emerge anche grazie ai tuoi studi e lo capisco bene. Hai partecipato a varie competizioni nel corso della tua carriera. Un esempio è il Festival di Sanremo nel 2013, nella sezione “Nuove Proposte”. Ti piacerebbe rivivere l’esperienza sanremese a distanza di sei anni o prendere parte ad un’ulteriore sfida canora del genere?
Per il momento no. La memoria che ho di quell’esperienza è legata alla mia inesperienza. So che sembra un gioco di parole, però è così. Sento che mi ha formata come essere umano, ma sento anche di essere stata molto impreparata a livello discografico. Senza avere una squadra di lavoro attorno che mi sostiene materialmente, sarebbe uno spreco di tempo riprovarci. Lo rifarei solo nel momento in cui sono sicura di non essere più da sola. Finiti i lustrini di quella vetrina lì, il lavoro poi deve andare avanti. Concretamente è anche meglio così.
Io non vivo male la competizione, anzi. Sono competitiva nel senso di voler fare io il massimo. In quel momento non era possibile dare il massimo che avrei voluto. Diciamo che per il momento non sento l’esigenza di rifare Sanremo. Se dovesse capitare con il progetto giusto, magari non lo escludo. Il futuro ci darà la risposta.
Invece, il 25 novembre al Vinile di Bassano Del Grappa si terrà la data zero del tuo tour, il release party del disco, insomma. Cosa dovrà aspettarsi il pubblico da questo spettacolo?
Credo dovrà aspettarsi un’Irene che si esprime in maniera più libera. Prima avevo questa fissa di dovermi accompagnare con il piano, con la chitarra, perché volevo portare sul palco quello che io facevo nella cameretta. Ora mi rendo conto che avevo proprio voglia di stare in piedi, avere un approccio più corporeo ed anche una vocalità più esplicita, più spinta. Sicuramente c’è un cambiamento rispetto al tour precedente. Sarà un live d’impatto, con un approccio vicino al punk. Tutti i musicisti in piedi con il loro strumento e non più l’acustico strumentale ed emozionale che era il disco di Irene Ghiotto. Le tre parole fulcro di questo tour saranno: forza, espressione e gioco.
Ci saranno altre date oltre questa al Vinile di Bassano Del Grappa?
Sì. Saremo a Padova il 13 dicembre, a Bologna il 19 dicembre e a Varese il 19 gennaio. Queste sono le date già fissate e poi ci saranno anche altre sorprese.