Essere cantautore, quanto dolore. Sempre col panico di dover esser poetico, profondo, per non disattendere quello che tale titolo presuppone dalla tua attività musicale. Questo, oppure prenderla a ridere e fregarsene degli stereotipi.
Prima cosa, sopra tutte: Davide Finesi fa ridere. No, non fraintendete, non per demeriti artistici. Fa ridere, sì, ma nel migliore dei sensi possibili: è impossibile sentire le canzoni e non lasciarsi strappare un sorriso dall’atteggiamento sornione e disincantato del buon Davide (basta leggere i surreali credits del disco, con l’elenco delle guestarrate impossibili).
C’è quell’atteggiamento leggero, da bar testaccino, da bottiglieria della Garbatella, da romano “rossi e neri tutti uguali”, senza alcuna pretesa di denuncia, quanto al più di mera constatazione del malessere de “La bella società”, che ci spinge per forza di cose a rubare perché, ahò, tanto lo fanno tutti (e quale miglior modo per “rubare” se non buttarsi in politica? Chiedetelo a Davide in caso). Un “volemose bene” senza rancore, che si trova e ritrova ancora nella malinconica piega di un sorriso mai forzato, anche quando affronta la tematica difficile e scivolosa del bene e del male nel Bel Paese, cresciuto tra traffichini e cravattari, palazzinari e Mafia Capitale in “Che je fa”.
Anche le tematiche più intime – amicizia e amore – vengono affrontate con quel sano distacco tipico della romanità migliore, quella stile Verdone anni ‘8o per intenderci: il blues quasi d’oltreoceano di “Mario blues” che ci racconta la declinazione tipica di questa italianità mai molesta insieme alla fine di una storia – il dramma umano per eccellenza no? – in “Amore, de che?”.
Insomma, La bella società è un Ep godibilissimo di un cantautore, un moderno “stornellaro” che dice qualcosa senza puntare il dito, giocando con le rime e con l’ironia. Una sana, pulita ironia che sarebbe bello trovare più spesso nella musica d’autore di oggi.
Riccardo De Stefano