Alla lettera “no cervello no”, i Nobraino, band romagnola di “scanzonatorio” impatto, presenzia ormai da tempo la scena indie rock italiana, passando da una piazza all’altra e collezionando pure qualche sporadica ma simpatica apparizione in tv. Figura di spicco del gruppo, il cantante Lorenzo Kruger, giovane trentaseienne, che ad incontrarlo dal vivo, impone uno strano timore e un certo dovuto riguardo.
Le piace essere intervistato?
Sì, soprattutto quando aspetto che la band monti il palco.
Quindi lo fa per dovere o per noia?
Per noia.
Dunque si annoia tremendamente durante un’intervista?
No, io no. Io mi annoio in generale, quindi cerco di fare qualcosa per non annoiarmi. Per cui fare l’intervista mentre gli altri montano il palco è una buona soluzione.
«Perdonatemi se con nessuno di voi / non ho niente in comune / io sono un istrione a cui la scena dà / la giusta dimensione» (Charles Aznavour, “L’istrione”, ndr) si ritrova un po’ in questa citazione? O niente affatto?
Bah, io non sono molto a favore della verbalizzazione, dell’auto-descrizione. L’auto-descrizione la trovo sempre una fregatura alla quale non ci si dovrebbe prestare. Perché mi devo io descrivere, mettere dentro ad una definizione e poi non poterne uscirne più?
E allora cappello, megafono, pistola, bastone dandy, chevalier, barba, baffi, bretelle sono importanti tanto quanto microfono, batteria, voce, chitarra, basso e tromba?
No. No, perché quelli sono sostituibili, interscambiabili, gli strumenti invece devono essere quelli. Il giocattolo, il feticcio, l’oggetto “transazionale” in quanto tale è qualcosa che può dipendere dalla situazione e cambiare con essa.
Vi definiscono o vi accusano – come preferisce lei – di essere una band indie folk rock, a suo avviso perché?
Indie perché fino ad oggi ci siamo mossi nell’ambiente delle produzioni indie. La musica indie non esiste in sé, è una definizione che si dà solo da un punto di vista economico. E folk probabilmente dipende dal nostro uso di qualche standard folk appunto, che sono a volte delle polke piuttosto che altro, per cui sì, noi andiamo a pescare anche da cose popolari come arrangiamento. Però a quel punto siamo anche rock, swing, punk, la lista sarebbe veramente lunga ed è difficile rientrare in una specifica definizione.
Le parole volgari in una canzone servono a…?
Ma io non vedo più distinzione ormai. Nel senso che le parole sono parole e basta. Cioè non è che una è una parolaccia e una è una parola, che cosa vuol dire? Se una parola è un mezzo più diretto, più utile per arrivare al concetto di ciò che stiamo parlando perché non dovrei utilizzarla?
Per lei sono più gradevoli i concerti nei piccoli paesi di provincia o quelli nelle grandi città?
Sono situazioni diverse ovviamente. A me i paesi di provincia piacciono molto, soprattutto le piccole piazze. È tuttora un desiderio di fare proprio un tour specifico nelle piazzette di 500, massimo 600 persone, robe del genere. Perché comunque c’è tutto un discorso sui borghi italiani, che sarebbe bello capire come rivitalizzarli piuttosto che andare a vivere in tristi zone di periferia, di provincia. E le città dall’altra parte, i club li senti più culturalmente vivi, ma non voglio fare quell’intellettualità che non mi piace, ma è proprio cosi, cioè in città incontri più dei ragazzi con cui puoi confrontarti.
Lei potrebbe mai vivere senza fare musica?
Ma mi piacerebbe fare altro, anche. Però, mentre quando ero più ragazzino, era affascinante la figura dell’artista multitasking, adesso mi sembra che sia maggiormente inflazionata e quasi sospetta. Per cui ne sono un po’ intimorito. In realtà appunto ho sempre avuto passioni parallele, arti visuali prima di tutto, design. Però non so, c’è chi mi dice che è meglio che io canti, cercando di scrivere delle buone canzoni, sarebbe già qualche cosa.
Lei è felice?
Non te lo direi mai, sono scaramantico.
Daniela Masella
foto di Danilo D’Auria