Prima di raccontarvi il concerto vorrei confessarvi una cosa: ero scettico.
Francesco Motta è senza alcun dubbio uno dei fenomeni emergenti di maggiore successo, ma non avevo ancora assistito a un suo live. Ascoltando il disco avevo percepito varie influenze che mi lasciavano pensare la solita cosa, quel “già sentito” che ogni tanto riecheggia ai tavoli dei locali. Fa molto fico dirlo.
Mi sono sbagliato. Succede.
Percorrendo la strada che conduce all’ingresso di Villa Ada a Roma, mi sono dovuto fare spazio tra le macchine parcheggiate (ovunque) e da questo intuivo il numero di persone accorse per il concerto.
Arrivato in prossimità del palco ho cercato in tutti i modi di stare in prima fila… inutilmente. C’era troppa gente!
Il mio scetticismo è stato subito spazzato via dall’apertura, un tappeto di bassi e synth in un crescendo che creava aspettativa, hype se volete. Motta, noto soprattutto per essere un bravo polistrumentista, ha alternato percussioni e chitarra. Credo che non riesca a stare con le mani in mano sul palco. Lo capisco.
Il live è stato un viaggio all’interno dell’album del cantautore pisano, La fine dei vent’anni, tutt’ora in promozione, che lo ha portato in giro per l’Italia. Un momento per ripercorrere anche vecchi successi, quelli della sua prima vita artistica, i Criminal Jokers, band new wave di cui è stato fondatore.
Come se fossimo al ristorante, vi consiglio due o tre pietanze per gustare al meglio Motta: “Del tempo che passa la felicità”, “Sei bella davvero” e “Mio padre era comunista”.
Vi dico sinceramente, dallo scetticismo iniziale, passando per lo stupore, sono giunto alla conclusione che dal vivo Francesco e la sua band, la sua “famiglia”, sono molto coinvolgenti, merito anche della scenografia e dell’illuminotecnica che regalano suggestioni aggiuntive.
Forse ho imparato qualcosa da questo concerto: mai giudicare un artista solo dal disco. Anche se ben fatto.
Vincenzo Gentile