C’è sempre un momento, per ogni cosa, che sancisce un “prima” e un “dopo”.
Per i Thegiornalisti, questo momento è coinciso con l’uscita di Fuoricampo, il loro terzo disco che li ha proiettati alle luci della ribalta elevandoli a campioni dell’indie pop nostrano. Il pubblico ai concerti è decuplicato, Tommaso Paradiso è diventato autore per altri artisti, poi ospite televisivo fino ad essere headliner nell’ultimo Concerto del Primo Maggio.
L’ascesa al successo urbi et orbi sembra l’abbrivio fondamentale per capire Completamente Sold Out, quarto capitolo di questa saga. La band è conscia del proprio materiale e del potenziale e si butta a capofitto per conquistare le classifiche nostrane e garantirsi un viatico privilegiato nel mondo del mainstream. Più che un titolo dell’album, una profezia facilmente avverabile. Chiedo a Tommaso Paradiso: chiamare un album così è più una sbruffonata o una boutade?
Il titolo c’entra in pieno l’autoironia dei Thegiornalisti. Può sembrare arrogante, ma c’è il senso profondo della nostra malinconia: “Sold out” parla di un funerale e su questo doppio senso capisci quanto la canzone sia triste. La miscela delle due cose ci definisce perfettamente.
Com’è cambiata la tua vita da Fuoricampo?
Ci sono più cose da fare, più impegni. Bisogna sempre farsi trovare nella miglior forma possibile: ho un approccio molto più professionale al lavoro. La musica invece rimane la valvola di sfogo di tutto, ritorno ragazzino.
Quante aspettative avevate riguardo all’album, mentre ci lavoravate?
Non mi faccio mai aspettative, ho imparato che possono solo far male. Non penso quando scrivo a una canzone a chissà quante persone in più l’ascoltano. Faccio le cose come le voglio fare, so che son sincero al 100%, vivo senza sensi di colpa. Sono soddisfatto e se incontra il grande consenso sono doppiamente soddisfatto. Mi piace condividere la mia musica con più persone possibili, senza aspettative. Se poi ci sono tre persone di più al concerto sono tre volte più felice. Certo, mi rendo conto che se voglio fare un album che parla solo di pancetta e salame avrà una portata molto minore.
La cosiddetta “scena romana” è ormai diventata un meme, un cliché. Di’ la verità, ci avete giocato un po’ anche voi, vero?
No, direi di no. Da Fuoricampo abbiamo capito che molte persone avevano bisogno di cantare ai concerti canzoni semplici e facili, e questa cosa per un caso è venuta fuori anche a Calcutta e ai Cani. Ne parlo spesso, non vado sul palco di Calcutta perché è una cosa studiata: a me piace molto quello che fa lui e, così come con Niccolò, siamo la cosa più simile che c’è in giro. C’è una somiglianza di genere, son canzoni pop che non hanno più a che vedere con l’indie. Abbiamo sfruttato il fatto di essere a Roma, a metà tra il fuoco e il sangue del sud e il minimal glaciale del nord.
E dell’aver fatto scuola, fino a generare cloni e copycat che ne pensi?
Ma in qualsiasi posto, quando c’è un focolaio, questo si autoalimenta: è una cosa normale. A me fa solo che piacere, vuol dire che abbiamo fatto qualcosa di buono: lanciare una moda è un vanto, non me ne dispiace per niente, è chiaro che le band più giovani troveranno la loro identità.
Ormai tra le ospitate in tv e il largo successo, sei diventato un vero pop idol. Come ti fa sentire la cosa?
C’è sempre un rapporto sincero col pubblico, mi scrivono sui social molte persone e ciò crea l’empatia tra me e chi mi scrive, quando ho tempo mi piace interagire così, sono uno che non si risparmia mai di parlare con nessuno.
Per la tv, è un divertimento, mi piace far ridere se possibile. Se adesso fossi ubriaco, ti risponderei che la cosa migliore è quando esci con la tipa famosa e fanno più foto a te che a lei. È divertente ma non ci pensi per nulla.
Una volta eravate tutti indie, ora siete mainstream. Diciamo così. Cos’è cambiato? È la rete? È il pubblico?
Non ho una risposta scientifica, stiamo parlando di una cosa in fieri. I ragazzi della mia età vivono sul web perché ormai non c’è altro, ma questo approccio ha coinvolto anche gli adulti. Chi ti segue per la musica poi ti cerca su Facebook, piuttosto che cercarla in radio. La rete è il mezzo di comunicazione alpha e non prende più una generazione di ragazzi, ma tutti quanti. Mia madre, che ha quasi settant’anni, si sveglia la mattina e vede che cosa ho caricato su Instagram. Poi mi chiama e mi dice: “ma che facce fai?”.
A proposito di social, sei sempre attivissimo. Da un lato affermi di essere timido e riservato, dall’altro ti esponi continuamente, tra foto e dichiarazioni intime pubblicate dappertutto. Non è un po’ paracula come cosa?
Non c’è paraculaggine, perché per me i social sono intrattenimento: mi diverto io e mi piace far divertire gli altri. Quando invece mi deprimo molte persone in privato mi scrivono, dicendo di sentirsi come me, così diventa un ulteriore modo per interagire con gli altri. Ogni cosa che faccio, la faccio con spontaneità e sincerità, non mi metto mai a raccontare cazzate. Quello che racconto è vero e sincero.
Completamente Sold Out è forse il tuo disco più intimo ed autobiografico. Perché mettere tutto questo in musica?
Ho sempre fatto musica, fin da quando ero bambino. Sono legatissimo al cinema ma non mi posso reinventare in questo modo, mi piacerebbe prendere una telecamera e girare qualcosa, ma son talmente malato di cinema che forse è meglio di no. È autobiografico perché mi sentivo di raccontare quelle storie lì. In Fuoricampo preferivo raccontare altre cose; Vecchio non ha funzionato perché volevo fare un esercizio di stile, e quando fai certe cose la gente lo capisce e ti manda a quel paese, giustamente. Con Completamente Sold Out volevo premiare la spontaneità, avendo l’urgenza di raccontare certe storie che mi riguardavano.
In Fuoricampo aleggiava distintamente la figura di Dalla. Adesso, il vostro dream pop è rimasto “nostalgico” ma meno derivativo. Cosa cercavate?
Con la band e Matteo Cantaluppi, il produttore, abbiamo discusso molto prima di entrare in studio. Senza pensare qualcosa di specifico, volevamo un disco che avesse una batteria, un basso, una elettrica con degli effetti “sognanti” e una tastiera, e così abbiamo fatto. Sono le tastiere e gli accordi che usiamo a dare quella patina nostalgica, ma ci piace. Se un sintetizzatore, con lo stesso suono, lo usi su un pezzo di Mengoni sembrerà supermoderno, su un pezzo nostro assume quei colori là. Ognuno ha una personalità che trasferisce anche agli strumenti e ai suoni. È una questione di attitudine più che di sound.
L’Italia, periferia dell’Impero, sembra sempre un passo indietro alla produzione internazionale. Pensate che il vostro sound potrebbe riuscire a superare i confini nazionali?
L’italiano che va fuori c’è ancora e viene apprezzato, prendi Sorrentino. Certo, devi scrivere La grande bellezza, il compito non è facilissimo, però ci si può riuscire. Io non andrò né spaccherò all’estero perché non c’entriamo nulla al di fuori di questa italianità cui noi siamo portatori. Almeno nei temi, se non nella musica, che magari nell’area alternative dream pop c’è roba simile. A noi piace la prosa italiana e un pezzo come “Disperato” non potrei mai farlo in inglese.
Una componente fondamentale è l’efficacia dei tuoi testi, non a caso c’è una nuova generazione che si identifica nel “disagio”. Come si inserisce la tua scrittura in questa corrente?
Se posso essere sincero, il disagio che esprimo è più universale: è un disagio romantico, d’amore, sentimentale.
Ci sono band o autori che cantano un disagio con parole diverse, come Vasco Brondi o L’officina della Camomilla. Quel disagio non riesco a comprenderlo, sono più generazionali. Io canto, con termini moderni, cose che anche Foscolo provava. “A Zacinto” era la sua “Fine dell’estate”.
È allora la vostra anima pop il segreto del successo? C’è una formula magica per fare del grande pop?
È la mia scrittura, non c’è stato un lavoro di ricerca particolare, ho solo avuto il culo che quello che scrivo prende un sacco di gente, viene condiviso sentimentalmente dalle persone, ma non l’ho deciso io. È pop in quel senso, perché è comune, facile. Non c’è un segreto tecnico nel pop, “Yesterday” è un pezzo complicatissimo da scrivere e da suonare, però sembra che l’abbia scritta tua nonna. Sono i misteri del pop, e dei geni. Ci sono dei canoni che stanno lì: il sublime rapporto, quella sintonia mortale che si crea tra l’opera d’arte e chi la sta guardando o ascoltando, lì nasce il successone.
Come detto, il disco è fortemente personale. Allora cosa dovrebbe ricevere l’ascoltatore, mentre lo ascolta?
Vorrei che si emozionassero, come se, entrati in un cinema, trovassero il film che aspettavano senza esserne delusi. L’arte deve essere conciliante e conciliatrice, rassicuratrice, rasserenante. Non voglio che mettano play e rimangano sconvolti, voglio che chi metta play dica “Sono proprio i Thegiornalisti”.
Sei un grande amante del cinema, ma solo da adesso avete iniziato a far girare vostri videoclip. Perché?
C’è una fortissima anima cinematografica in noi. Il videoclip fa paura, non c’è in Italia una scuola forte di videomaker capace di sconvolgerti. Sulla musica possiamo sbagliare e la responsabilità è nostra, ma sbagliare un video ci distruggerebbe, abbiamo un grande fanatismo nei confronti del cinema. Non è una questione di budget, quanto di approccio: i Kings of Leon fanno il video in cui son sempre fighi della madonna, se prendi una band italiana sembrano quattro cessi inculati, brutti come la fame.
E se l’album fosse un film, chi ti piacerebbe che lo girasse?
Se su Fuoricampo ti avrei detto senza dubbio Carlo Verdone, Completamente Sold Out, molto più drammatico, lo vedrei girato da Paolo Sorrentino.
Riccardo De Stefano
Ph. Danilo D’auria