È un punto interessante per la riflessione, quello di considerare il diverso modo di pensare al suono che hanno in America rispetto a come siamo abituati qui in Italia. Ed è un suono che poco si presta alle estetiche precise e rigide del gusto modaiolo, vien fuori quel tipo di disco che sembra suonato in jeans e maglietta più che con abiti glitterati di scena, che metti solo per i concerti. E vien fuori un disco che sa di vita quotidiana… e quello di Tobia Lamare sa anche di sole e di legno, di pietra e di quella vita che andava e di quella vita che arrivava. Stefano Todisco scrive e pubblica “Songs for the present time”, lo scrive quando suona a spasso per il mondo e lo registra chiuso nella sua masseria a Lecce, a due passi dal mare. Ed è un disco che cambia faccia, che incontra stili, che cerca penne e voci diverse, che si contamina di country, di blues, di America… il singolo “Dada” e il suo bellissimo videoclip restano alla mente richiamando melodie eterne. Dal sapore agro-dolce… benvenuto al nuovo disco di Tobia Lamare.
Ritroviamo Stefano Todisco, ritroviamo Tobia Lamare. Ti ritroviamo in un disco in movimento, come lo ami definire… in un anno quasi di produzione, quale movimento è stato davvero significativo?
È stato un anno in cui, forse,per la prima volta non mi sono mosso a caso. Molto spesso mi lascio andare dove mi porta la strada, invece per potermi muovere questa volta ho dovuto calibrare e pianificare tutto. Stava nascendo mia figlia e, purtroppo, morendo mio fratello. E’ come avessi avuto un set di onde che mi lasciano respirare per pochi secondi e poi mi mandavano giù di nuovo. Per uscirne vivo devi nuotare in una direzione giusta. Quindi la direzione, simbolica, giusta è stata quella della spiaggia.
Parlaci degli artisti stranieri con cui hai collaborato per questo lavoro. Come e perché hai scelto proprio loro?
È un caso. Nate Bernardini (USA) e i Red Kid (IRL) sono nella Lobello Records. Con loro ho condiviso molti concerti. Mi conoscono e hanno dato il loro parere sui suoni e sui testi. Mara Simpson (UK) è una musicista molto brava e disponibile con cui ho collaborato anche nel disco precedente. Sono stati l’orecchio del produttore esterno. Tutti loro hanno un forte amore per la musica del passato e in qualche modo volevo che il disco avesse il suono di un disco che viene da lontano.
L’ascolto ci arriva molto variegato, di stili e di generi. Personalità a confronto potremmo dire. Qual era il tuo reale obiettivo?
Prendere il meglio di quello che avevo scritto e raccogliere le canzoni che avessero le emozioni al centro delle loro storie. È un album che si lega anche grazie ai testi. Sono storie che unite alle immagini scelte per la copertina vanno verso una direzione romantica, non in senso di romanzo Harmony, ma di grandezza della natura, dell’amore e della morte.
Cd e Vinile… ormai si sta tornando al vinile come fossero gli anni ’70. Ecco: sei legato a questo supporto? Perché?
Ho circa diecimila vinili nella mia collezione anche se non sono un collezionista. Quando non suono la chitarra sono dj a 45 giri. Negli ultimi anni ho comprato tantissimo soul degli anni ’70 ma anche jazz, r’n’blues. Una grande parte della collezione è di rock e new wave che sono stati i miei primi ascolti. Credo che il vinile sia esteticamente più bello, si senta meglio, duri di più. In macchina non abbiamo più bisogno del cd, i computer non hanno più lettori cd, insomma il cd è difficile da ascoltare. Se una persona deve comprare uno stereo credo che oggi compri un piatto, casse e amplificatore. Se dovessi stilare una classifica metterei in testa il vinile, seguito dal cd e poi dallo streaming che comunque è il più basso di qualità di riproduzione.
E agli anni ’70? Per lunghi tratti in questo disco trovo radici che arrivano da quel tempo. Forse sbaglio? Sono mie impressioni?
Mi sveglio la mattina con Carole King e Jackson Browne. Adoro Dylan, The Band, il sound della west coast. Il mio Springsteen preferito è quello che arriva a The River. Le produzioni degli anni ’70 sono incredibili. Sono dischi che suonano da paura. Ad esempio credo che le produzioni dei Doors degli anni ’70 abbia un suono irraggiungibile.
A chiudere: il mastering di Nachville. Questo passaggio cosa ha significato per il disco? Ha portato i benefici che cercavi?
Assolutamente si. Immaginavo Steve Corrao che premeva un pulsante sul banco mixer dove c’era scritto: “band italiana che cerca sound americano”. A parte gli scherzi anche sul mastering c’è stato un lungo lavoro. Quasi tutti i miei dischi hanno avuto il mastering negli Stati Uniti. Uno dei motivi di questa scelta è che non devi spiegare ai tecnici chi è Jack Johnson o la differenze tra Dylan di “Blonde on Blonde” e quello di “Desire”. Hai un punto di partenza diverso che è quello degli ascolti. Chi dice che il mastering è solo regolazione delle frequenze è come uno chef che dice che la cucina è solo la regolazione della temperatura del forno.