Come promesso torniamo su questi sentieri dentro cui l’esordio discografico ha più il significato di esercizio d’esistenza più che di gara alla celebrazione dell’ego. Insomma “Riflessi” sembra suonare come un bel modo di essere più che come una bandiera da sventolare per farsi belli. Ed è tanto, anzi troppo da chiedere a questi tempi. Disco riflessivo e non per fare un gioco di parole. Lo si percepisce dentro quel certo modo maturo e d’autore di scegliere e far cadere le liriche. Il corredo è di un rock che non preme di frenesie e di chissà quale fretta di uscire. Il pop degli Zaund poi non è di banalissime soluzioni anche se non sono troppo d’accordo quando leggo dalla critica che stanno ricevendo che dal suono esca fuori una narrazione: arredi complessi si ma siamo forse appena lontani da suoni didascalici al concetto. Discorsi complessi che non vorrei distogliessero l’attenzione da “Riflessi”, dal tutto che comunque sa di coerenza e di credibilità. E visti i suoni, gli Zaund avrebbero certamente potuto osare di più… viste anche le numerose contaminazioni che la loro terra campana ha da offrire in termini di prog… e ci sarebbe stato assai bene…
“Riflessi” è un esordio… ma come leggiamo altrove, prende spunto da tante cose passate. Qual è la vera ragione: riportare ad oggi il passato?
Non c’è alcun intento nostalgico nel nostro lavoro: semplicemente un artista rielabora ciò di cui si nutre artisticamente, e i nostri ascolti sono fatti per lo più da musica composta qualche anno o qualche decade fa, con le dovute eccezioni. Rielaboriamo i nostri ascolti per costruire un linguaggio musicale con cui sentirci a nostro agio e poterci esprimere al meglio. L’unico riferimento è la classica forma canzone, anche se a volte ci divertiamo a giocare con essa e a sperimentare diverse soluzioni.
E le nuove scritture di questo invece come si incontrano o si scontrano con quelle più “vecchie”? Avete in qualche modo lavorato per amalgamare il tutto?
Crediamo che ci sia una linea comune tra i brani pubblicati nell’Ep precedente e quelli del nuovo album, sia per quanto riguarda la scrittura che i suoni o l’arrangiamento: ma questa continuità è venuta praticamente da sé, non c’è stata alcuna intenzione o forzatura. Più che per amalgamare, stiamo lavorando per far venire fuori la personalità del gruppo in modo sempre più chiaro. Siamo sempre noi a scrivere, ma più andiamo avanti e più viene voglia di esplorare ambienti sonori nuovi, luoghi in cui non siamo ancora stati.
Un disco che si pone tanti interrogativi: è un tempo questo dentro il quale dobbiamo riflettere? Nel senso che stiamo perdendo tempo nel semplice apparire?
Nei momenti più confusi come quello che stiamo vivendo, tra pandemie, guerre, inadeguatezza delle risposte politiche, e la tecnologia che fa passi da gigante ogni giorno, crediamo fermamente che riflettere sia un’azione fondamentale, forse per la nostra stessa sopravvivenza – intendiamo sia in senso sociale e politico, che in quello più ampio della vita umana sulla terra.
Sin dal primo ascolto ho pensato a questo disco come a qualcosa di qualche generazione fa. Una band di amici, un garage, un dopo scuola… la voglia di stare assieme. Il suono mi parla di questo…
Esatto, l’approccio vive di quella spontaneità quasi adolescenziale, trovata per caso tra persone che non sono più adolescenti. E questo ci dà un’energia incredibile sul piano artistico. Senza questa energia, quale senso avrebbe oggi mettere su un gruppo? Siamo contenti che si percepisca attraverso le nostre canzoni.
“Ossidiana” invece è davvero il momento più vintage del disco. Echi battistiani tra le sue righe…
Grazie, per noi è un gran bel complimento. Musicalmente c’è un’affinità tra la musicalità energetica soprattutto del Battisti rock degli anni ’70, anche se nel testo c’è un contenuto politico preciso forse: “Ossidiana” è essenzialmente una canzone contro la follia tutta umana della guerra. Qualsiasi guerra.