– di Clara Giacalone –
Cesare Basile, dopo tre anni dal suo ultimo album “U fujutu su nesci chi fa?” torna a documentare la forza e le debolezze della sua terra inneggiando alla patria e nascondendosi dalla “Cummeddia” la stella cometa portatrice di sventura e metafora di esilio.
“Cummeddia” (Urtovox, 2019) è composto da 11 pezzi tutti cantati in siciliano, con un vocabolario tipico del catanese che Basile trasforma in poesia, in canto popolare, facendo dei suoi brani un dipinto contemporaneo della Sicilia dalle sonorità sperimentali, uniche, irriproducibili che ti colpiscono come una sferzata di vento caldo, scirocco per le orecchie.
“L’arvulu russu” (L’albero grosso), il singolo che introduce il disco con un video suggestivo e sanguinoso, ci fa riflettere sulla violenza e sull’omosessualità con la ripetizione sterile e alienante della famosa proposta d’invio al confino politico per pederastia di Molina, questore di Catania che nel 1939 guidò le deportazioni alle isole Tremiti.
Un esordio macabro, attuale e che lo stesso Basile commenta scrivendo: “Continuiamo ad essere figli dell’infamia”. Non a caso tutti gli altri brani del disco celano un risvolto sociale semicoperto da dolore, bugie, orrore.
“Mala la terra” ha un’intro strumentale, dopo un minuto si trasforma in un coro femminile che canta come se recitasse un “malocchio”: “Mala la terra che è Patria, mala la pianta che coltiva”. Sublime.
“E sugnu italiano” (E sono italiano) è il secondo brano del disco: già dal titolo è chiaro che Basile stia iniziando a raccontarci una storia di appartenenza e di negazione ed estraneità allo stesso tempo. “La curannera”, per esempio, è la lavandaia che condanna sua figlia, una sorta di baccante che con una treccia sciolta e una collana che sbatte sul collo balla senza scarpe come esito di un banchetto dionisiaco.
Il folklore siciliano e il disincanto sono vividi anche in “Sette Venniri Zuppiddi” (Sette veneri zoppe), dove la storia popolare dell’isola è ricreata da una chitarra calzante, dal ritmo estremamente cadenzato.
La chitarra è sempre magistrale, il violino è di Rodrigo d’Erasmo, le tastiere di Hugo Race e i tamburi di Alfio Antico, la lapsteel di Roberto Angelini: questi sono alcuni dei nomi che accompagnano questo disco e compongono quel blues definito “desert”, “mediterraneo”, intriso di Africa, come nel brano “Chitarra rispittusa” (Chitarra rispettosa) che è quasi arabbeggiante.
“La naca ri l’annijati” (La culla degli annegati) è un chiaro riferimento ai morti in mare, come se il fondo del mare sia una mera consolazione di morte dopo uno strenuo viaggio, il tutto descritto come una filastrocca cantata, quasi a smorzarne la gravità, un intento evidente anche in “Mina lu vento” (Soffia il vento).
Infine, uno dei brani più belli e interessanti è “Cchi voli riri” (Cosa vuole dire): in un’immaginario onirico Cesare Basile descrive la guerra che è causata da spine di fichi d’india che volano e infilzano gli esseri umani rendendoli talmente matti da iniziare a credere di avere tutti ragione fino a uccidersi fra di loro.
L’album scava a fondo le radici della sofferenza della società, lo fa con epicità, come se descrivesse un viaggio omerico alla ricerca di risposte. Il tema del viaggio non abbandona mai di certo Cesare Basile e (i) Caminanti che guidati da una “cometa” più splendente di quello che si può pensare, offrono anche dal vivo, uno spettacolo itinerante tra le terre di Sicilia e quelle più buie dell’animo umano.