– di Angelo Andrea Vegliante –
È un po’ la storia della mia vita. Essere un tipo spigliato e disinvolto, in grado di strappare una risata anche nei momenti più cupi ma, automaticamente, diventare un grande ‘rompiballe’ quando si tratta di tematiche sociali. Perché sì, anche quando sono al pub con gli amici a parlare di tutto e niente, all’improvviso prendo parola e discuto, ad esempio della questione tibetana.
Magari non c’entra nulla con il discorso, ma in quel momento sento l’enorme esigenza di parlare di diritti umani calpestati. Per alcuni dei miei amici, in maniera ironica, sono quello troppo ‘serioso’, un ‘rompiballe’. Che, alle volte, è vero: cioè, sto sempre a cercare la componente sociale e culturale in ogni cosa. Il mio obiettivo, però, è sempre lo stesso: non dimenticare. Mai.
Già l’anno scorso fui etichettato in modo tale quando mi lamentai ampiamente dell’esclusione dal Festival di Sanremo 2019 di Pierdavide Caroni e dei Dear Jack, i quali avevano proposto un brano, “Caramelle”, che parlava di violenza sessuale sui minori. Sia chiaro, non ero tanto incazzato per l’esclusione in sé, quanto per l’impossibilità per il pubblico mainstream di ascoltare la canzone. Oh, ascoltare un brano è come leggere un’inchiesta: puoi documentare un fatto così nessuno potrà dire che non lo sapeva.
Per questo, quando qualche settimana fa ho saputo dell’esistenza de “Il gigante d’acciaio” di Gabriella Martinelli e Lula, mi sono ricreduto sul cambio di rotta di Sanremo 2020. La rivincita dei ‘rompiballe’, mi sono sentito rappresentato. C’erano delle ‘rompiballe’ che, con la propria arte, non solo volevano dimostrare le proprie capacità artistiche, ma anche parlare, discutere, tenere alta l’attenzione su quel gigante d’acciaio.
Personalmente, sento sempre l’esigenza di ascoltare opere con un risvolto politico, sociale o culturale. Insomma, qualcosa che mi consegni un’interpretazione ancora più profonda, che parli di attualità, di storie, di persone, di carne e ossa. Ultimamente – purtroppo -, ci stiamo dimenticando troppo facilmente di certe cronache. Ed è un male. Un grosso male. Perciò Sanremo può funzionare come cassa di risonanza per queste importanti occasioni.
Ho avuto modo di ascoltare il pezzo prima dell’esibizione all’Ariston. E me ne sono innamorato. Decisamente innamorato. Non è un testo raffazzonato che parla di un gigante d’acciaio, ma trasuda umanità da ogni parola, con un’armonia che ti trafigge il cuore e ti infiamma l’anima. Ti fa pensare che in questa vita bisognerebbe combattere tutti assieme, e non isolarci nei nostri loculi. Siamo di fronte a un brano granitico, in grado di accarezzarti l’anima e rammentarti che la musica può celare fatti veri, reali, concreti e tangibili, per i quali bisogna mobilitarsi, scendere in piazza, rivoluzionare la società. “Non possiamo scegliere se vivere o lavorare, non possiamo scegliere se vivere o lavorare, se scappare o morire”. Rendetevi conto: se scappare o morire.
Purtroppo o per fortuna, c’è chi la pensa diversamente, e per pochi punti percentuali la canzone non ha superato la fase eliminatoria. Non alzerò bandiera bianca, non dirò che “Qui nessuno non capisce un cazzo de musica” e non asserirò che “Io so’ mejo perché impegnato socialmente”. No. Però, un’altra serata, questa canzone se la meriterebbe tutta.
L’arte si cela dove meno te lo aspetti. Basti pensare al nome del protagonista del brano, mai citato per tutta la durata del pezzo, ma comunque presente con riferimenti di ogni tipo: “il mio quartiere tutto rosso”, “quando c’è vento non posso uscire a giocare”, “c’è una puzza pazzesca e non si può respirare”, “con grandi camini che fumano sul mare”, “con dieci anni d’amianto e molte rughe”.
E se siete arrivati fino a qui e ancora non sapete il nome del gigante d’acciaio, allora abbiamo un problema culturale più serio che giudicare il guardaroba di Achille Lauro.