– di Angelo Andrea Vegliante –
Perdonerete l’uso della prima persona, ma questo pezzo nasce da un evento personale. È il 13 maggio, il giorno del corteo antifascista alla Sapienza di Roma, della manifestazione non autorizzata di Forza Nuova e dello schiaffo di uno dei militanti di FN a un giovane contestatore. In questo contesto, mi trovo a una stazione, diretto all’ufficio di un cliente. Assieme a me un collega, che mi racconta del nuovo album di Daniele Silvestri e, in particolare, di “Tempi Modesti”, una canzone dal testo forte, diretto, che fa intendere una presa di posizione netta contro il popolo della rete e il ministro dell’Interno Matteo Salvini. Almeno questo è ciò che mi viene raccontato.
Ancora vergine dell’ascolto de “La Terra sotto i piedi” (il nome del disco di Silvestri), mi lego al dito questa informazione. La sera torno a casa, accendo Spotify e vado dritto a “Tempi Modesti”, senza passare dal via. Un brano di 6 minuti e 21 secondi, che vede anche la partecipazione di Davide Shorty. Prima di cliccare play, ripenso un attimo a un mio vecchio articolo, nel quale dipingevo l’attualità artistica priva di una spina dorsale rivolta verso la politica. Non che nessuno avesse mai espresso pareri personali, sia chiaro, ma che la musica (i brani in sé, per intenderci) fosse svuotata di connotazioni e idee politiche di ogni sorta.
La canzone parte. La ascolta una, due, tre, quattro, cinque volte. E una sola chiave interpretativa non riesco a tirarla fuori. Perché “Tempi Modesti” racchiude molte sfaccettature di una musica che può (e dovrebbe) fare più politica, o quantomeno opera di sensibilizzazione. Perché non è vero, come dice un certo personaggio, che “i cantanti cantano, i ministri fanno”: la musica è anche opinione, diffusione di idee e concetti, condivisibili o meno. E, appunto, per comprendere quanto sto raccontando, è bene scannerizzare alcuni frame della canzone stessa.
“È stupido, ma efficace / Ridicolo, sì, ma audace / Il popolo della rete / Là, mi abboccherà / Abbocca già”. Una descrizione nuda e cruda del pubblico a trazione posteriore a cui la politica oggi si rivolge. Una folla digitale che, dalla sua, ha svariate caratteristiche critiche, non certo encomiabili. Molto spesso è protagonista di vessazioni verbali pubbliche, fomentate da quella “logica del Mi piace / Sembrava finire, e invece / Va, ma quanto va / Ma dove va?”. Insomma, va dove ti porta la reaction, o almeno va dove ti viene detto di andare.
Non è un caso, infatti, che la costruzione logica della canzone indichi (e rappresenti) un fautore di questa macchina dedita al qualunquismo. Fautore che incita a un comportamento abbastanza paradossale: “E ti consoli pensando che il rischio non c’è / E ti diverti insultando chi è meglio di te / Che se va bene a un ministro, figurati a me / Dai, facciamoci un selfie col morto al mio tre”. Insomma, l’identikit cantato da Silvestri parla di sé. Un uomo che, da solo e abusando del suo ruolo istituzionale, legittima qualsiasi azione o comportamento anti-democratico, enfatizzando l’uso del disprezzo e della denigrazione nei confronti dell’alterità.
Caratterizzazioni limpide che tornano ampiamente nei versi di Shorty. Il rapper, di fatto, apre le porte a uno dei problemi socio-culturali attuali più importanti: “l’ignoranza che dilaga / Una maga che ipnotizza e che minaccia”. E trova sempre nella stessa figura la nascita di una malevola Circe, che – per nascondere il suo intento di pietrificare gente di ogni tipo – “Sputa forma senza la sostanza / Intrappolato dentro la sua stanza / Esce con il sedativo in tasca / Solo se la connessione casca”.
Tuttavia, è la conclusione a essere il vero pezzo forte del brano. Perché, nella sua semplicità, Silvestri affronta – probabilmente anche con molta delusione – la stilizzazione di una società votata al lavaggio del cervello. Da una parte c’è un ministro che dice “Tu guarda la mia pasta / Ignora chi protesta”, in un meccanismo di occultamento dei fatti, evitando di sguincio ogni domanda di rilievo pubblico, in modo abbastanza plateale: “E quando serve una risposta / Ammesso mai che sia richiesta / Non serve neanche che sia giusta / Come non serve che sia onesta / Basta che sia sempre la stessa”.
Una risposta, un claim, uno slogan, un hashtag semplice, veloce, efficace, ma al tempo stesso povero di cultura, che arriva nella testa delle persone, indipendentemente dal contenuto fittizio che trasporta. E questa è l’amarezza più grande che emerge da “Tempi Modesti”. Perché quella risposta, tanto millantata in giro come verità assoluta, diventa una ripetizione necessaria per controllare il proprio pubblico. Tanto, alla fine della fiera, “a te cosa interessa? / Se per la gente che ti ascolta / Puoi dire quello che vuoi”, scadendo nel bullismo, nel razzismo e nell’odio di chi non la pensa come te.