– di Davide Calò –
Nella tarda serata di giovedì 4 marzo 2021, durante la consueta edizione nazionale del festival della canzone italiana, gestito in un teatro Ariston completamente vuoto a causa di pandemia, si è avuto l’idea di invitare, sia per aumentare il fantomatico indice di ascolti (ormai l’unico metro di qualità di un prodotto di massa, ahinoi), sia per sensibilizzare in materia di malattia, l’allenatore della squadra di calcio del Bologna Siniša Mihajlović. Accolto da Amadeus e Fiorello, conduttori della già citata manifestazione, e da Zlatan Ibrahimović, calciatore trentanovenne del Milan e co-conduttore a sua volta, in questo dialogo a quattro ci si è costantemente soffermati sia sulla vicenda sportiva dei due uomini di calcio sia sulla vicenda umana di Siniša, colpito da una leucemia acuta qualche anno fa, dando molto peso al rapporto tra i due. Successivamente l’allenatore ha chiesto di cantare una canzone e i quattro, come in qualunque bar karaoke, si mettono ad intonare (se così possiamo dire) per qualche minuto la canzone scelta vestendo i panni degli “Abbadeus” (in riferimento alle origini svedesi di Zlatan).
Adesso tu, lettore, ti domanderai: “Perché ne stai parlando?” Perché sono rimasto solo sul vago, su ciò che percepirebbe qualsiasi persona che stava sonnecchiando davanti alla televisione l’altro ieri sera; ma, se andiamo ad analizzare l’incontro in un contesto di un festival che si è dimostrato spesso “problematico”, tra battute abiliste, gesti inclusivi calpestati, umorismo pessimo e ospiti maltrattati, intravediamo quello che può essere definito un vero e proprio simbolo di ciò che è la televisione nazionalpopolare e, facendo dietrologie, uno spaccato della società italiana. Il tutto si apre con la descrizione dell’esperienza di Mihajlović con la malattia, esperienza svilita sia dai costanti riferimenti ad altro, sia da una mancanza di tatto da parte di tutt’e tre i conduttori. Finito ciò l’allenatore chiede all’amico calciatore di cantare una canzone, fingendo una richiesta improvvisata.
Richiesta, però, non improvvisata per niente, visto che tutto ciò che accade a Sanremo viene preparato a tavolino ben prima, e quella richiesta di cantare “Io vagabondo” dei Nomadi può solo portare alla mente, nella popolazione più smaliziata, un riferimento diretto: l’assonanza tra slavo e zingaro e quella tra zingaro e vagabondo. Ad alcuni può sembrare una visione arbitraria e poco consona e, anzi, un peccato di malizia di chi scrive, però vi invito a chiedere a chiunque vi circondi il perché abbiano deciso di portare una canzone del genere, con un significato simbolico e una storia incredibilmente forti.
Storia e simbolo: concetti chiave di questo breve testo che vengono costantemente attaccati, specialmente quanto il concetto di “donna”, ad oggi in costante rivalutazione, e di “fiore”, utilizzato come simbolo di un retaggio patriarcale da rompere all’interno del festival. Siniša in questa dimensione calpesta tutto prima della canzone, dicendo agli altri due conduttori di fare il ruolo della donna in una canzone scritta da soli uomini ed intonata da soli uomini in un contesto di cui parleremo successivamente.
Ciò non toglie che una frase del genere resti infelice, poco consona, simbolicamente e storicamente pericolosa, visto anche come Fiorello risponde a questa frase dicendo: “Non c’è problema, ormai siamo (pausa per aumentare il tono goliardico) fluid”, andando a sminuire quello che è un elemento importantissimo della lotta di una comunità di persone la cui richiesta è solamente quella di poter stare al mondo. Stesso diritto che viene espresso proprio da “Io vagabondo”, testo scritto da Alberto Salerno che racconta la povertà, che parla dell’attaccamento nei confronti di un Dio che è la sola e unica cosa che è rimasta; una canzone cantata da quattro uomini ricchissimi nel pieno di una crisi economica: la musica resta un simbolo con un senso dietro, negarlo significa perdersi nell’alienazione e non ascoltare.
Io preferisco ascoltare piuttosto che sentire, preferisco sentirmi offeso da quattro uomini abbienti che cantano di nullatenenza e di richiesta disperata di vita, di accettazione, di rabbia e di attaccamento verso un’alterità. Nel 2021, in piena pandemia, è incredibilmente vile continuare ad accettare queste visioni senza provare a dare una scossa; fermarsi al mero “politicamente corretto” e alla volontà di “staccare la spina” non elimina ciò che ho scritto, non elimina una serie di problemi sistemici e sistematici di una società che continua a sputare al cielo per poi lamentarsi per la pioggia.