– di Gabriele Colombo –
Ricordarsi per Restare Affamati
Il Cerchio che Non Si Chiude
Piripiripiripiripiripi.
Ho iniziato a giocare a rugby a 35 anni. Uscivo da una serie di casini sentimentali e lavorativi, ingrassato 10 chili in 7 anni, con le sere passate a praticare il mio hobby del bere nel modo meno intelligente: da solo a casa.
Al primo allenamento l’allenatore urla velocemente:
«File da tre sui conetti gialli, uno sul conetto blu e uno su quello rosso. Giochiamo un 3 contro 1 poi di nuovo in continuità un altro 3 contro 1 con sostegno.»
Nella mia testa invece ho sentito: piripiripiripiripiripi, e non ho capito niente.
La notte, dopo il terzo e quarto tempo, finito l’effetto dell’alcol, la mia schiena e le mie spalle hanno presentato il conto. Il giorno dopo avevo due possibilità: allenarmi, imparare, presentarmi la settimana dopo preparato. La seconda non la ricordo, ma suonava un po’ tipo: piripiripiripiripiripi.
Ho scelto la prima. Mi sono allenato, ho fatto nuovi amici, ho litigato ma mi ricordo bene quella sensazione di pace, quando i pugni in campo pesano meno dei pugni delle relazioni andate a puttane dei miei primi 35 anni.
Mi sono iscritto al corso da allenatore. Ho fatto amicizia con altri coach. Ho alzato la sfida e le mie abilità. E ho sempre avuto quella benedetta sindrome dell’impostore che mi ha permesso di continuare a studiare per essere all’altezza.
Oggi, quando ascolto Ernia rappare “Mi ricordo”, penso a quel primo allenamento. A quando non capivo niente ma ho scelto di capire. A quando ero fuori dal cerchio e qualcuno mi ha fatto entrare.
Il Cerchio si Apre
«Fare il cerchio per rappare solo per appartenersi
Scappare per le vie senza prendere quelle cieche»
La morale della storia che ti ho raccontato prima è semplice. Sentirsi inadeguato di fronte a una sfida è una sensazione scomoda, ma è il punto di partenza per decidere quale strada vogliamo intraprendere.
Puoi scegliere di imparare cose nuove, allenarti più di prima, studiare cose che nemmeno sapevi esistessero, fare corsi intriganti, leggere libri, parlare con gente più brava di te. Oppure puoi scegliere la seconda opzione, che nella tua testa deve suonare un po’ tipo: piripiripiripiripiripi, e non hai capito niente.
E la seconda morale è che se non riesci da solo, puoi anche chiedere aiuto. Ma non per evitare la fatica: per farne una più grande. La fatica di sembrare incompetente oppure di metterti in gioco con le tue competenze, per quello che sei. La fatica di chiedere cose banali oppure di informarti prima e chiedere cose intelligenti per migliorare. La fatica, in questo caso, è la fonte a cui si abbeverano le persone assetate di successo.
Una postilla romantica. Giacomo, con i miei compagni di quel gruppo di scappati di casa degli Zeengarians, mi ha salvato la vita. Mi ha dato la sensazione di far parte di qualcosa e mi ha messo in moto. In maniera involontaria, ovvio. Ma come in maniera involontaria mi aveva lasciato senza luci per un evento importante nel mio precedente lavoro. In entrambi i casi l’esserci stato ha lasciato il segno.
Ogni volta che penso a questa storia, alla mia vita degli ultimi otto anni, penso a quel punto di partenza. Lo faccio perché senza quell’ovviamente sì non sarei qui adesso a scrivere questo libro. Senza quel mal di schiena fortissimo non sarei così in forma adesso. Senza le discussioni infinite al bar con Giacomo, Spa, Ago, Ste e gli altri sul rugby — su cosa significa quel movimento o quella scelta o quel nome di uno schema — non mi sarei innamorato di nuovo dello sport. E non starei così bene.
Spaccare con Rispetto
«Voglio spaccar sta roba, fare i milioni dal letto
Ma senza camminar sugli altri al salvo dentro ad un cerchio ristretto»
Chi ricorda cose belle, traccia uno spazio nella sua mente che costruisce e che protegge le emozioni positive senza chiudere fuori nient’altro. Prima si faceva «il cerchio per rappare solo per appartenersi» in quello che per molti era strada.
Oggi quel cerchio potrebbe rovinarsi nel successo. Ma chi resta vero lo tiene aperto ad incontri veri, quando le cose non vanno bene ma soprattutto quando vanno da Dio.
È la differenza tra spaccare e distruggere. Nel mio lavoro con gli atleti vedo sempre questa linea sottile: vuoi vincere, vuoi dominare, vuoi “spaccare” — ma a che prezzo?
Ernia vuole spaccare «senza camminar sugli altri”», dove non chiudi fuori gli altri ma crei uno spazio dove tutti possono entrare senza essere calpestati. Lascia entrare le critiche costruttive, lascia uscire l’ego. Non giudica l’errore come terribile né il successo come definitivo. È un ricordo che respira, che non soffoca chi ci sta dentro né esclude chi sta fuori.
I Due Fuochi
«C’è differenza tra sentire un fuoco dentro ed esser dei piromani»
Il fuoco dentro è quello spazio nel cerchio dove entra ancora aria, l’incompletezza che ti spinge. I piromani invece bruciano tutto, incluso il ricordo di chi erano.
Penso a Il gioco interiore del tennis di Timothy Galloway, uno dei libri più importanti del coaching. Quando giudichi il tuo errore come “terribile”, non stai solo valutando quel singolo momento: stai chiudendo il cerchio su te stesso, blindandoti nel fallimento.
Ma quando accetti l’errore per quello che è — semplicemente un errore, senza aggettivi — il cerchio resta aperto al miglioramento.
Prima era necessità: «fare il cerchio per appartenersi». Oggi è scelta consapevole: tenere il cerchio aperto anche quando potresti permetterti di blindarlo. Perché spaccare davvero non significa distruggere tutto intorno a te, ma costruire qualcosa di così potente che non ha bisogno di calpestare nessuno per esistere.
Un esempio? L’attaccante che dopo il primo gol importante dimentica le notti a tirare contro il muro del garage. Diventa arrogante, inizia a camminare sugli altri. Ha bruciato il ponte con la sua fame originale.
Ricordarsi Non È Nostalgia
«Se ti scordi chi eri allora chiama e sarò pronto
Se vuoi te lo racconto, perché io mi ricordo»
Come quando dice che mille euro erano “molto meno di ciò che avevi da dire”. Le parole pesavano più dei soldi.
In un bel libro ho letto:
«Le persone che non raggiungono i propri obiettivi hanno la tendenza a tergiversare, a prendere le decisioni con lentezza e a cambiarle spesso e con celerità.»
Ernia invece ha deciso presto: ricordarsi chi era. E mantiene questa decisione con costanza. Non è nostalgia inconcludente di chi cambia idea ogni giorno su cosa sia stato importante. È la strategia precisa di chi sa che dimenticare le origini significa perdere la direzione.
«Mille euro eran molto meno di ciò che avevi da dire»
Questa è la consapevolezza che quando non hai soldi, le parole devono valere. Devono spaccare. Non puoi permetterti di sprecarle.
Chi prende il controllo della sua vita, del suo gruppo e della sua mentalità trasformandola in vincente usa questa stessa strategia: decide presto, dettaglia, dimostra il valore. Non con i soldi o le «macchine e collane», ma con la sostanza.
Decidi, dettaglia e dimostra il tuo valore — ma ricordati sempre quando il tuo valore non erano i numeri ma le parole, non era il successo ma la fame. Perché è lì che hai imparato a non tergiversare, a non cambiare idea ogni volta che il vento girava.
Lo Spazio Vuoto
«Un conto è farsi spazio e poi riempirlo con i mobili
Un conto è aver lo spazio e accoltellarsi per star comodi»
Il paradosso del successo: conquisti lo spazio e poi? Lo riempi di trofei fino a non poterci più muovere? O lo tieni vuoto per continuare a ballare?
Ho vissuto questa differenza sulla mia pelle. In uno staff incapace di mettersi in discussione, ma che proprio in quella incapacità ha costruito grandi vittorie. Ma non si stava bene in quello spazio, conquistato da tutti e che diventava territorio da difendere.
Ognuno si accoltellava per star comodo nella propria poltrona. Ma i veri spazi — quelli che mi venivano lasciati ai margini — li ho usati per imparare, per capire che tipo di mental coach non volevo essere.
Fai quello che non pensavi fosse possibile fare. Riempiti di movimento. Di possibilità. Di rispetto reciproco che crea più spazio per tutti invece di dividerselo col coltello.
Il Pantheon dei Litigiosi
«Ma di st’immortalità ho pensato di farne a meno
Se vuol dire fare parte di un pantheon di dei greci litigiosi»
Ernia rifiuta il cerchio chiuso dell’élite dove tutti si accoltellano per lo spazio. Come quello staff dove ognuno proteggeva il proprio orticello da finto vincente invece di coltivare insieme il campo.
«Sognavamo un giorno, e adesso il giorno è ora
Ma ci vedo tutti tristi e la ricchezza non consola»
Il successo che chiude il cerchio diventa prigione. Come mi diceva un allenatore:
«Da quando vinciamo sempre, nessuno ride più negli spogliatoi.»
Hanno riempito lo spazio di trofei ma hanno perso la capacità di muoversi, di mettersi in discussione per il bene comune.
Chi dà valore alle relazioni sa che lo spazio vuoto non è spreco: è opportunità. È dove può ancora succedere qualcosa di impensabile. Dove puoi ancora imparare dal confronto invece di accoltellarti per un posto fisso nel pantheon dei mediocri che si credono dei.
La Chiusura: L’Enso
Quello che Ernia descrive è un Ensō — il cerchio zen che resta volutamente aperto. Non per imperfezione né per design, ma per una connessione diversa con quello che sei e che sei stato.
Anche nei giorni difficili, come il lunedì degli atleti. Nel mio lavoro con gli atleti, il lunedì è il giorno peggiore. Si svegliano ricordando solo gli errori, i gol mancati, le occasioni perse. La memoria diventa nemica.
Ma c’è un’altra via: ricordare non per punirsi, ma per restare connessi. Non gli errori di ieri, ma chi eri quando nemmeno avevi l’opportunità di sbagliare in campo.
Il vero vincente usa il lunedì per ricordare non cosa ha perso, ma da dove è partito. E in quella distanza — non nella perfezione mai raggiunta — trova il combustibile.
«È che non ci riconosco, perché io mi ricordo» — dice Ernia.
Il cerchio perfetto non si completa nel successo. Resta aperto sulla memoria.
Il cerchio che non si chiude non è rotto: è perfetto.





