– di Riccardo De Stefano –
Incredibile a dirsi, ma siamo sopravvissuti anche a questo.
Doverosa precisazione, che tanto non impedirà ai fan dell’evento di aggredirmi verbalmente, anzi, forse gli darà la necessaria giustificazione: io dell’Eurovision non ho visto neanche un minuto di programma. E dire che sono stato anche a Torino il 10 maggio, giorno della prima semifinale televisiva.
Un po’ per snobberia, un po’ perché avevo altro da fare, sono riuscito a saltare praticamente tutto il programma senza neanche troppa fatica. L’impressione da esterno, a giudicare dal sentimento che attraversa la rete, è che sia stato un Sanremo fatto bene, per una volta tanto.
Il che ci fa capire che certe cose si possono anche fare bene, se finanziate e progettate con cura, anche perché floppare male in Eurovisione sarebbe stato grottesco.
Adesso ci importa anche dell’Eurovision
No, la vera notizia non è tanto questa (sempre che sia così), quanto che ormai l’Eurovision è diventato rilevante anche qui in Italia, completando quel processo che da qualche anno era già avviato.
I rapporti tra Italia e l’Eurovision sono da sempre altalenanti, infatti. Se proprio l’Italia è stata l’ispiratrice del progetto, con l’intuizione di Sergio Pugliese di esportare il Festival di Sanremo nel contesto europeo, con la vittoria di Gigliola Cinquetti dominatrice dell’edizione del 1964, via via i rapporti si sono raffreddati, con lo spettro dell’autoboicottaggio accennato e mai confermato, il pensiero diffuso cioè che l’Italia non volesse vincere – perché organizzare l’Eurovision è un salasso economico.
Così dopo la guerra fredda combattuta tra il 1997 e il 2010, quando l’Italia all’Eurovision proprio non ci ha partecipato, negli anni ’10 del nuovo millennio qualcosa cambia. Di colpo l’Eurovision torna a essere un programma interessante per il grande pubblico generalista italiano, inebriato dalla competizione internazionale e desideroso – evidentemente – di scoprire cosa la Moldavia e l’Estonia possono dare al mondo del pop.
Un successo forse inspiegabile, o forse no. Sarà perché l’Eurovision ha imparato e migliorato laddove Sanremo non è riuscito.
La TV ci ha rovinato a tutti
Più di dieci anni di talent show musicali avrebbero dovuto insegnare qualcosa al programma di punta di Mamma Rai e, invece, il carrozzone mediatico di Sanremo procede ancora imperterrito nei suoi tempi lunghi, nei monologhi insostenibilmente retorici e nell’accozzaglia di artisti buoni per coprire tutti i gusti di grandi e piccini.
Invece l’Eurovision diventa un Expo del pop europeo, e la formula ora più che mai guarda ai tempi, al ritmo e all’appariscenza di un X Factor che al datatissimo Sanremo.
L’Eurovision così diventa una sorta di Europe’s Got Talent, più che un concorso musicale. Un frullatone mega colorato di costumi bizzarri, pop iper-prodotto e sopra le righe, sound generico americanofilo e proto-nazionalismo musicale tinto di “cultura locale”.
Non che a nessuno interessi davvero di chi canta all’Eurovision: i concorrenti servono solo per creare la squadra da tifare – «Hey, San Marino non ha votato l’Italia!» – e lo show serve ai partecipanti per sondare il terreno in territori oltralpe o al di là del mare, nella speranza di bissare il non bissabile successo dei Måneskin, che, nemo propheta in patria, solo grazie all’Eurovision sono assurti a padroni della musica italiana nel mondo – con buona pace di Laura Pausini e Il Volo, comunque essenziali nello storytelling di questa edizione italiana.
Il frutto proibito
L’Eurovision diventa quindi il frutto proibito da mordere per uscire dai confinanti limiti territoriali, al punto da spingere Achille Lauro a compiere l’ennesima pantomima della sua carriera – che una volta poteva quasi sembrare di alto profilo – floppando clamorosamente, non solo per colpa sua, venendo eliminato dalla competizione prima della finale.
Così come Mahmood e Blanco, eroi indiscussi dell’anno solare 2022 e in odore di santità dopo il computo degli streaming pre-Eurovision, finiti a un lontanissimo sesto posto e prontamente riposti nel cassetto dei ricordi.
Se effettivamente i “nostri” artisti riusciranno a rimediare qualcosina sul suolo europeo (mentre sbarcare negli States stavolta sembra impossibile), ancora è presto per saperlo, ma certo male non farà alle loro carriere.
Quindi bene per l’Eurovision come piattaforma di lancio per gli artisti, ben venga questo e l’export di musica italiana nel mondo, specie se si tratta di talenti come Mahmood e Blanco. Il problema dell’Eurovision è un altro, condiviso proprio con Sanremo.
La musica è un gioco
Come abbiamo detto spesso su queste pagine virtuali, il grande problema sta nella natura stessa dello show: l’ennesima competizione televisiva a tema musicale non fa altro che spingere pubblico e artisti a concepire la musica come una gara, una competizione dove si vince e si perde.
Questa continua gamification della musica, nata con Sanremo (che ricordiamo è da sempre visto nel mondo come uno spettacolo quasi trash), esplosa coi talent che per anni hanno modellato le classifiche e infine transustanziata nell’Eurovision, massima espressione e summa totale dei suoi fratellini televisivi, sembra il punto di non ritorno per la musica mainstream – e non solo.
Siamo ancora totalmente dipendenti dalla televisione a quanto pare, unica garante di successo reale. Ancora oggi, qualcosa esiste solo se passa in TV. E per avere successo e “sfondare” ovunque, non avrai altra via all’infuori di lei.
Ogni tanto, bazzicando le community online, noto che l’idea dei “numeri” e del successo abbia ormai attecchito nella testa delle nuove generazioni, dopo aver fottuto la testa a noi Millennials. Una volta, in classifica ci andavano solo i prodotti finti, spinti a forza dalle major, e, seppure non è cambiato niente, oggi il nuovo pubblico smart e “woke” si compiace di questa situazione, cercando e celebrando quei numeri e quelle classifiche che vedono in testa i loro beniamini.
Se non vinci, non sei nessuno
Tutto ruota intorno all’idea che la Grande Musica vince, arriva prima, supera le altre, sconfigge il cattivo e s’impone.
Musica come competizione, come gara, come “game” a cui partecipare solo se si vuole vincere. E il cambiamento nei nuovi artisti è stato questo, almeno negli ultimi dieci anni: passare dal suonare e cantare i propri brani per l’urgenza di dire qualcosa all’inserirsi sulla scia, cercando di scalare la montagna e provare a superare per primi la linea del traguardo nel rush finale.
Certo è che i due anni di lockdown/pandemia hanno spinto necessariamente il mondo discografico verso la TV ed è comprensibile, se non accettabile. L’idea sempre più horror è che, dopo gli odiatissimi (almeno, una volta) talent show e dopo Sanremo che torna a essere pietanza prelibata da gustare, arriva anche la “Champions League” della musica, ed è già facile vedere come nei prossimi anni si moltiplicheranno i tentativi – sempre più patetici, probabilmente – di afferrare questo pezzo di torta, soprattutto per toglierlo agli altri.
La musica è un gioco, ormai. Anzi, ora che siamo europei più che italiani, diciamola utilizzando la koinè internazionale: «Music is a joke».