-di Assunta Urbano
foto di Simone Bozzelli-
«Arssalendo is NOT an anagram.»
Questa è la frase di presentazione del progetto di Alessandro Catalano, che prende il nome a tutti gli effetti dal suo stesso alter ego.
È il 2017, siamo a Roma e il progetto elettronico di Arssalendo nasce dal computer. Inizia a girovagare tra i palchi della città e la prima pagina del suo percorso arriva con la pubblicazione del disco d’esordio “Litanìa”, il 21 gennaio 2020.
Giovedì 11 novembre 2021, a quasi due anni di distanza, l’artista ritorna con il singolo “Sottopelle”, in cui la voce viene messa in primo piano, così come le emozioni. Tra 808 e synth, ci perdiamo in una storia di contraddizioni, il colpevole e la vittima si fondono, perché su entrambi vincono gli errori compiuti, l’incapacità di superarli se non esorcizzandoli.
Se ve lo state ancora chiedendo, ovviamente sì, “Arssalendo” è un anagramma, ma non è ciò che ci interessa sapere.
Abbiamo sentito telefonicamente l’artista e produttore mentre si trovava a Bologna, per farci svelare più dettagli riguardo il suo percorso musicale.
Partiamo dal principio: chi è Arssalendo?
Il progetto è racchiuso tutto nel nome. È il mio nome anagrammato; qualcuno lo capisce, altri no. Prende spunto da me, dalle cose che faccio, da quello che mi piace, dai miei errori, che provo a raccontare agli altri.
Eppure su Bandcamp la tua bio è: «Arssalendo is NOT an anagram».
In un certo senso il nome è nato prima del progetto. È proprio un’altra persona, nata in un momento preciso della mia vita. È diventato il nomignolo, che mi affibbiavano altri.
Un po’ come un alter ego?
Esatto.
In questi quattro anni hai portato in giro il tuo primo album “Litanìa”, ma soprattutto il tuo sound. Come nascono i suoni?
Tecnicamente dal computer, in vari mesi di processamenti di un singolo suono. Nascono soprattutto dai miei ascolti. Credo di avere un’estetica molto precisa e cerco di riportare ciò che mi piace nel mio progetto.
L’identità è sicuramente uno dei punti cardine per un artista.
Invece, per quanto riguarda il percorso musicale, mi viene da pensare che in Italia associamo spesso l’elettronica a città più fredde, come Torino, invece c’è una scena molto sentita anche altrove. Cosa succede a Roma, soprattutto in questo periodo?
La scena romana c’è sempre stata nella musica elettronica. Il mio primo disco è uscito con un’etichetta romana [White Forest Records, nata nel 2012, ndr]. Credo che negli ultimi due anni di pandemia gli artisti stiano tornando a creare opere senza pensare a soddisfare il pubblico. Si è smesso di cercare troppi ascolti, di inseguire la hit da club, prediligendo magari l’istinto e suoni diversi. Quindi, si può parlare di chitarra e voce per qualcuno, glitch per qualcun altro e così via.
Forse negli ultimi due anni è cambiato il modo di fruire la musica, l’ascoltatore è diventato più attento.
Attento, non so. Sicuramente si è perso l’hype della trap, ma non è ancora arrivato un genere sostitutivo. Ogni volta che in Italia non c’è qualcosa di preponderante, come anche l’hip hop nel passato, nascono miliardi di nicchie. Secondo me, è proprio quello il momento più interessante. La corrente più forte, ovviamente, viene poi portata alla ribalta.
Giovedì 11 novembre è uscito il tuo nuovo singolo, ci sveli cosa si nasconde “Sottopelle”?
È il primo singolo uscito dopo un bel po’ di tempo dal primo disco, più di un anno e mezzo fa. Dal punto di vista sonoro, continuo a viaggiare sulle stesse frequenze. Quella è la sfera su cui voglio lavorare. Avendo collaborato con tante persone dal gennaio 2020, in cui ho pubblicato “Litanìa”, fino ad oggi, ho iniziato ad approcciarmi al mondo più cantato. Volevo mettere ancora di più la mia intimità dentro a ciò che facevo.
Per quanto i suoni e l’ambientazione possano dare un mood, il brano comunque, che sia o meno astratto, ti dà immagini più chiare con un racconto vocale. Ho pensato molto alla parte testuale, sono arrivato ad un punto in cui ho capito come usare la voce, che è sempre elettronica, distorta, con cambi di glitch. È stato importante capire come volevo esprimermi. Ci tenevo che fosse qualcosa di astratto, ma allo stesso tempo con frasi che potessero arrivare dritte ad un interlocutore.
«A volte mi perdo nel senso» è la razionalità che perde la sua importanza, nei confronti dell’emotività. Pur non raccontando, ciò che provi diventa condivisibile con l’ascoltatore.
Certo, proprio così.
Ciò che vediamo “Sottopelle” di Arssalendo, tramite la musica ovviamente, è una continua lotta, sia verso te stesso che contro una figura esterna. Chi è, se c’è, il nemico da combattere?
Sono io! Tutti i brani che ho scritto e che scrivo sono derivati da errori che ho fatto e ho bisogno di ostracizzare. Ho necessità di parlarne. Sono alcune cose che non riesci a dire neppure ad uno psicologo, se non le hai prima integrate. Nel momento in cui le comprendi, ti condizionano e decidi di cambiare. Non posso che essere io la persona che combatto.
Non solo nemici, però. C’è una forte ripresa del passato e del presente, viaggiando sempre nel futuro. Decostruzione e distruzione, come vediamo ad esempio in “Ang3lo”, che riprende “This Charming Man” degli Smiths. Ci sono pezzi di altri artisti su cui ti piacerebbe lavorare?
In questo momento, non saprei dirti se “distruggerò” altri brani. Anche lì c’era una forte lotta contro di me, era un brano che ascoltavo per farmi male. Sentivo il bisogno di inserirlo in qualcosa di mio e di far iniziare “Litanìa” così. Nel disco poi ci sono una serie di reference, come in “Atout” c’è “Malamente” di Rosalía. Comunque, ti dirò, ciò che vorrei distruggere adesso è la mia voce.
Interessante. Abbiamo cercato di tracciare in breve il percorso musicale di Arssalendo. Cosa dobbiamo aspettarci dal futuro?
Non so quanto posso spoilerare! Adesso ti posso dire sicuramente che c’è da aspettarsi tanta voce e tanti errori che verranno ostracizzati in altri brani.