Bellissima e per niente scontata nei cliché che vedono questa musica confinata dentro dettami molto rigidi e perennemente ricorrenti. Isabella Dall’Agnese, di sangue italo-brasiliano, celebra le sue radici in tutto e per tutto con il moniker BELITA, mescolando la produzione italiana della Massive Art Studio di Milano con la cultura Brasiliana, regalandoci l’ascolto di “AGORA OU NUNCA”, il suo primo disco in cui raggaeton, dance, si uniscono a derive urban e metropolitane. Elettronica e sex appeal, ma anche quel concetto sociale di emancipazione femminile, o di appartenenza e condivisione. E non è tutto scontato, a partire dai suoni che ricercano la deviazione da strade iper battute… per finire alla ricerca di costumi e immaginari visivi che fanno di questo progetto, altamente curato, un vero passe-partout per la scena internazionale.
Belita. Partiamo da questo nome d’arte… perché e come Isabella Dall’Agnese diventa Belita?
Sono sempre stata dell’opinione che i nomi d’arte devono avere un qualcosa di personale. Da piccola, mia mamma mi chiamava Belita (diminutivo di Isabel, in spagnolo), oppure Belinha (diminutivo di Isabella in portoghese). Belita, però, come nome d’arte ha vinto, non solo perché secondo me è molto bello, ma anche per la tenerezza e il significato che ha.
E in particolare cosa ti lega e ti ha spinto a vivere da vicino questo genere di musica? Solo questione di radici familiari o altro ancora?
Tutte e due. Le radici familiari sempre influenzeranno la mia arte, è automatico, va da solo. Poi c’è il discorso del gusto, della preferenza, del divertimento. Il pop latino è fatto di varie sfumature ritmiche, che sono meravigliose, e molto interessanti per creare e costruire un lavoro di un certo livello qualitativo.
Belita e la storica Massive Art di Milano. Che incontro è stato?
Ho iniziato a frequentare il Massive Arts Studios, cinque anni fa, quando mi sono trasferita a Milano. Cercavo uno studio di registrazione, il migliore dal mio punto di vista, per incidere delle cover e da lì è iniziato il mio percorso lavorativo con loro, che sono la mia seconda famiglia.
Il tuo raggaeton, se mi permtti l’uso di etichette di sintesi, si contamina tanto. I suoni soprattutto oltre che ad una certa scrittura. “Yo No Te Creo Màs” o “Tribu” sono esempi assai sfacciati… ci racconti queste derive?
Il mio genere musicale non è reggaeton puro, ma cerchiamo di creare dei suoni che sono influenzati dalle mie esperienze e della mia cultura di appartenenza.
I suoni come li hai scelti e ricercati? Che lavoro c’è dietro?
Per quanto riguardano i suoni, in “Tribù” nello specifico, trasuda questo fatto della contaminazione che è importante, perché caratterizza molto il “sound” e lo rende anche più interessante secondo me.
In questo caso sono dei campionamenti, quindi sono tracce che sono state cercate appositamente anche per il contesto del video, utilizzando la tecnologia che abbiamo a disposizione.
Il bello della contaminazione è il fatto di poter sentire in una canzone che potrebbe essere dance, un coro molto legato alla cultura indigena o brasiliana.
In genere il tema portante è la donna e la sua emancipazione. Eppure in questo lavoro ci sono anche forti sfumature sociali, non è così?
In verità, il tema portante delle mie canzoni non è solo quello della donna e la sua emancipazione. In ogni singolo, ho voluto rappresentare una sfumatura sociale, una diversa dall’altra, per far sì che si percepisca che c’è stato un lavoro di ricerca, per l’elaborazione di ogni singolo progetto.