Non credo voi abbiate bisogno di questo articolo. Probabilmente già conoscete i Boxerin Club. Certo, se non li conoscete, dovete assolutamente rimediare – dopo aver provato un po’ di vergogna – perché questi ragazzi hanno le carte in regola per diventare assai grandi. Sì, lanciano proprio in questi giorni sul mercato la loro prima creatura matura, il disco d’esordio dall’emblematico nome di Aloha Krakatoa, per l’etichetta Bomba Dischi. E benché in genere il disco d’esordio sia il primo passo nel mondo della musica “che conta”, nel caso dei Boxerin Club è la conclusione di un tragitto tanto tortuoso, quanto trionfale (nel loro piccolo).
I Boxerin Club sembrano infrangere ogni preconcetto moderno su come arrivare, riuscendo a farsi conoscere quasi ovunque lungo la penisola italica grazie a un’attività live estenuante che li ha portati, con merito, ben oltre i confini nazionali, arrivando a sbarcare, dopo la vittoria all’Arezzo Wave Band 2013 (con annessa partecipazione al festival toscano), nientepopodimeno che nella Grande Mela, New York, suonando per la CMJ Music Marathon. In patria invece, nel 2013 hanno fatto sì che il loro nome circolasse ovunque, ben oltre Roma, attraverso una stagione di live assolutamente invidiabile e una copertura dell’informazione musicale praticamente capillare. E questo semplicemente con un paio di EP alle spalle, ma tanto talento nelle vene. Perché comunque, nonostante la giovane età, i cinque ragazzi hanno macinato non solo tanta strada, ma anche tanta musica: i due lavori precedenti, Tick tock (here it comes) e il live acustico per il RecordingGranma ci mostrano le basi del loro suono, tropicale, solare, fresco e ballabile, una sorta di portmanteau musicale per cui si sono inventati la definizione di “World pop”. “World” in quanto il sound della band sfugge dai vincoli geografici e sonori del Bel Paese ed esplora curioso l’ombelico del mondo e i vari continenti, eroicamente svicolando i tradizionali stilemi blues e rock per abbracciare le suggestioni latino-americane, caraibiche, africane più disparate possibili. “Pop” perché alla fine la loro è una musica ballabile e cantabile, la colonna sonora ideale della migliore festa che potete immaginare. La forza della formazione sta tutta nell’incredibile sezione ritmica, con Francesco Aprili alla batteria, e il ragazzo è uno dei migliori batteristi che girino a Roma, e Matteo Domenichelli, geniale bassista che sa mettere sempre le note giuste al punto giusto, con un gusto e un timing unico. Una tale forza ritmica, specialmente quando arricchita dalle percussioni di Edoardo Impedovo, responsabile anche della tromba, l’arma in più della band, permette una grande libertà a Gabriele Jacobini, che con la sua sei corde è più interessato a decorare che a calcare la mano, lavorando molto sul suono e diluendo la chitarra tra le infinite riflessioni del riverbero. Matteo Iacobis si prodiga tra una seconda chitarra e l’ukulele, oltre a farsi carico del cantato in una buona metà dei brani, facendo a mezzi con l’altro Matteo della formazione. Il risultato è uno strepitoso miscuglio tra la new wave à la Talking Heads e le buone vibrazioni del Paul Simon di Graceland e dei suoi epigoni moderni, Vampire Weekend e Fleet Foxes su tutti, ben consci dell’eredità musicale lasciata da Beatles e Beach Boys. E se c’è qualcosa di italiano, lo si può far risalire al Lucio Battisti più sperimentale, non a caso più world, di Anima Latina.
Aloha Krakatoa è figlio di tutto questo e molto più. Già nelle ultime settimane del 2013 viene anticipato dal singolo “Caribbean town”, dal titolo quanto mai azzeccato (scelta curiosa, vista la collocazione temporale, in pieno inverno), con tanto di videoclip realizzato da un collage di estratti delle numerosissime esibizioni dal vivo, comprese quelle d’oltreoceano. Con la sua atmosfera da viaggio sognato ma impossibile da realizzare, questo singolo racchiude in nuce tutto il disco: slide guitars vestite dello spring reverb più surf e ‘60s possibile, un basso pulsante, percussioni battenti, divertenti hook vocali (“Discover a world!” urlato dalla band ne è un bell’esempio) e la tromba, con la sua malinconica linea melodica, a completare il quadro. Ma il resto del coloratissimo album è ricolmo di potenziali singoli, partendo dai tre brani ricevuti in eredità dal loro primo EP Tick Tock (Here it comes), che si rivelano esser poi tre delle migliori canzoni del disco: aggiornati con una produzione più ordinata e pulita, dopo un ulteriore lavoro di labor limae che ne ha levigato i contorni e corretto le ingenuità, i nuovi vecchi brani ci mostrano quanto siano cresciuti i ragazzi in questi anni. In “It takes two to tango” ci si ren de conto quanto Matteo Iacobis sia maturato come cantante, avendo acquisito un nuovo spessore vocale, probabile figlio di lunghi ascolti di Morrisey e compagni. Invece basterebbe anche solo l’attacco di “Golden nose” per conferigli il titolo di instant classic: l’ukulele e la chitarra slide regalano un gioiello pop che si alza in piedi nel ritornello, quando voce e tromba dialogano tra loro, per far partire le danze. “Hedgehogs” è né più né meno la quintessenza dei Boxerin Club, ieri come oggi: l’uptempo, l’incredibile groove di batteria e basso, la tromba e l’irresistibile coretto sono tutti i punti forti del brano-bandiera della formazione capitolina, che sa come far ballare e divertire il proprio pubblico. L’opener del disco, “Bah boh”, trascrizione fonica di bubble, non delude le aspettative, con le due chitarre all’unisono in un riff che sembra scappato da un disco dei Talking Heads (qualcuno ha detto Naked?) se non da Discipline dei King Crimson. Certo, la fenomenale sezione ritmica potrebbe nascondere molte magagne, distrarci e confonderci le idee, ma i nostri sanno come far suonare le chitarre, maggiormente descrittiva quella di Jacobini, tagliente e percussiva quella di Iacobis.
Ma il resto del disco riesce a regalare anche momenti più intimi, come la ballata pop di “Clown”, che fonde magistralmente un bel groove di basso con deliziose armonie vocali, e il valzer caraibico di “(Boys are too) Lazy”, che amplia l’orizzonte strumentale della formazione con una splendida marimba; l’atmosfera muta nella coda del brano, quando gli strumenti si zittiscono lasciando spazio alla voce e al basso, in un finale suggestivo e crepuscolare. Matteo Domenichelli si addossa le responsabilità canore nei brani della seconda metà del disco, probabilmente in quanto autore dei brani; il suo riconoscibile timbro, meno levigato e leggermente più graffiato del collega, accompagna “Clouds’ll roll away” che ci catapulta nelle caldi notte cubane e non si vergogna di aprire le danze: se si lascia il giusto tempo d’ascolto al brano, ci si può accorgere della capacità del quintetto di creare grandi ritornelli. “Try hocket” è meno efficace, meno pungente, seppure intrigante nell’utilizzo dell’hocket, o hoquetus, appunto, cioè lo sviluppo melodico “a singhiozzo” dove una linea viene condivisa da più voci.
La grande sopresa è “Northern flow”, pezzo cardine dell’album, che si piazza esattamente al centro del disco. Qui non si è più tra le dune di qualche spiaggia assolata, ma tra le ventose colline del nord, guardando in faccia la tempesta che arriva; l’ipnotico bordone in mi percorre gran parte del brano, inframmezzato da cori, incastri vocali, armonizzazioni di gruppo che emergono dalle profondità in una strana e obliqua atmosfera mistica e leggermente acida.
Il disco non può che chiudersi col suono di una festa, a metà strada tra il Brasile e l’Africa nera: “Black cat serenade” chiude il cerchio trascinandoci di nuovo sulla sabbia, di notte, davanti al fuoco a urlare a squarciagola e bere fino a dimenticarci il domani, in un tripudio di legni, percussioni e canti tribali. Il disco si chiude così, sfumando nel silenzio, lasciando l’impressione che da qualche parte la festa stia ancora andando avanti, e che se solo lo volessimo, potremmo ancora viverla di nuovo, daccapo.
Che dire? Aloha Krakatoa è il disco che molti si aspettavano per avere conferme, in positivo o in negativo, dalla “next big thing” della musica romana. Certo, non tutto è perfetto: la scelta di registrare su nastro, coraggiosissima in epoca di digitale imperante, ha fatto sì che rimanessero impresse alcune imprecisioni nell’intonazione; qui e là la voce, la tromba o la chitarra vanno fuori. Inoltre il disco è forse perfino troppo omogeneo e compatto nel sound, e avrebbero di certo potuto osare di più. Ma stiamo parlando di una band di ragazzi al primo lavoro, che fa musica quasi “come si fa in America”; un disco molto poco italiano nelle intenzioni, nel sound e negli effetti, che sia una cosa positiva o meno, e un risultato non solo credibile come opera prima, ma addirittura da encomiare per le tante splendide canzoni, quasi tutti potenziali singoli, per la perizia tecnica e l’ottima capacità arrangiamentale affinata in anni e anni di performance dal vivo e lavoro in sala prove, evitando l’affanosa e forzata corsa alla registrazione a tutti i costi e la diluzione dei brani migliori in lavori amatoriali e pressapochisti. Dalle corse frenetiche sulle fredde colline di “Northern flow” ai sudati balli in spiaggia di “Black cat serenade”, dall’energia di “Hedgehogs” fino alla delicatezza di “(Boys are too) Lazy” il disco si veste e sveste in continuazione di paesaggi e ambienti naturali, in un vivido caleidoscopio di orizzonti e monti, di mare e sale. Una continua ricerca di se stessi in giro per il mondo, per poi scoprire che è più importante il viaggio, che l’arrivare.
Riccardo De Stefano