– di Martina Rossato e Anna Rescigno
foto in evidenza di Mehmet Gurkan –
Il cantautore Cristian Bugatti, noto artisticamente come Bugo, pubblica oggi Per fortuna che ci sono io, il suo nuovo disco di inediti, il decimo della sua carriera. Nato nel 1973 a Rho (Milano) e cresciuto a Cerano (Novara), esordisce nel 2000 con l’album La prima gratta. Partecipa a Sanremo nel 2020, nella categoria Big, e nel 2022 conduce il concerto del Primo Maggio e partecipa al programma televisivo Pechino Express. Nel 2024 racconta la sua carriera e molto altro nel Bugo Podcast su Spotify. Grande appassionato di sport, oltre alla sua carriera musicale fa parte della Nazionale Cantanti, con cui sostiene obiettivi solidali sia in campo che fuori.
Per fortuna che ci sono io, prodotto dallo stesso Bugo e uscito – in vinile e digitale – per 7 srl con distribuzione ADA Music Italy, è l’ultima fatica del cantautore, un disco importante per il suo percorso artistico, caratterizzato da una grande autenticità e da un sound più grezzo dei precedenti. Abbiamo deciso di fargli qualche domanda sul nuovo album: ecco che cosa ci ha raccontato.
Per fortuna che ci sono io è un disco indipendente “sul serio”, uscito per un’etichetta indipendente. Che rapporto hai con i termini “indie” e “indipendente”? Che cosa vuol dire far uscire un album indipendente nel 2024?
Vorrei essere molto sincero: per me è irrilevante, quello che conta è la musica. Poi se viene distribuita da etichette major o indipendenti non è così determinante. I miei primi due dischi sono usciti con etichette indipendenti, poi ho fatto dei dischi in major. Non ho mai scritto musica pensando a chi l’avrebbe pubblicata. Essere “indipendente” non m’interessa molto, mentre m’interessa che la mia musica possa arrivare a più persone possibile. Il discorso indie lo conosco bene, io vengo dagli anni Novanta, dove andava di più il termine underground e non c’era ancora quell’indie da Gazzelle in poi. Sono tutte terminologie che non fanno parte della mia mentalità: io voglio fare la mia musica, la distribuzione non m’interessa.
Ciò che m’interessa davvero è essere indipendente mentalmente: questo penso di averlo dimostrato, in tutti questi anni. La mia musica rifugge le categorie. Mi ritengo un artista pop sui generis: non sono pop come Marco Mengoni (che rispetto molto), voglio essere pop a modo mio. Ad esempio fare un disco così, dopo aver fatto Sanremo ed esserci andato con quel disco [Cristian Bugatti, uscito nel 2020, ndr], cambiare squadra produttiva e musicisti… Questo è un modo per essere indipendenti, ma non per andare “contro” qualcosa. Non mi ritengo un artista controcorrente e anzi, quando scrivono: «Bugo controcorrente» mi da un po’ fastidio, perché non voglio essere contro qualcuno. L’indipendenza nasce solo da un fatto creativo: voglio avere la libertà di raccontare ciò che provo ed essere il più libero possibile mentalmente, indipendente nella testa. Non voglio essere indie, voglio essere un artista popolare, che piace a tutti.
Sicuramente è un disco in cui metti al centro te stesso. Lo capiamo dal titolo ma anche da quello che ci stai dicendo. Dici di non voler andare controcorrente, però fare un disco in cui tu scrivi, arrangi e suoni è una scelta controcorrente. Non c’è neanche un feat. Come hai ricercato quest’autonomia artistica e che lavoro c’è stato dietro?
Partiamo dal titolo. Non vuole essere un titolo egoriferito. Non parlo solo di me, credimi. Vuole essere un input per tutti, perché ho l’impressione che spesso siamo tutti criticati, sembra quasi che il bullismo vada di moda, e che ognuno debba trovare il modo per dire: «Per fortuna che ci sono io». Mi auguro che tutti trovino la forza per dire: «Io sono così, ho i miei difetti e i miei pregi, voglio essere unico, non omologato». La musica non voglio che sia solo per me. Non dico che voglio che sia d’aiuto – forse è troppo – però voglio essere empatico con gli altri. L’ho spiegato nel monologo a Le Iene, qualche giorno fa. Io ho sempre voluto molto l’autonomia nei miei dischi. I produttori in questi dieci dischi che ho fatto in vent’anni li ho scelti sempre io. Io sono sempre super partes, scelgo tutto quello che voi sentite, metto il timbro. In questo caso avevo voglia di produrlo io. Non l’ho registrato tutto io: ci sono una serie di musicisti che mi hanno aiutato e l’aspetto della band è molto importante. Per fare questo tipo di disco, nel 2024, è come se Bugo fosse una band, come se fossimo gli Oasis, i Nirvana, e non il solista. Questa cosa si vede dai nomi che sono stati inseriti e nei testi: i brani sono stati co-firmati, è un lavoro molto di squadra. Il titolo può sembrare fuorviante, ma in realtà è un lavoro di squadra. Potevo chiamarlo Per fortuna che ci siamo noi.
Ci sono varie parti nell’album in cui si parla di patti d’infanzia e di tornare bambini. Che tipo da lavoro c’è stato nello scavare nel tuo passato, per scrivere questo disco?
In realtà non ho molto scavato nel mio passato. Sono un bambino anche se ho cinquant’anni. Il mio lato infantile, che mi viene spontaneo, lo coltivo con grande serietà. Non è un discorso alla Peter Pan, non voglio essere l’eterno giovane. Io ho cinquant’anni, sono sposato, ho due figli (e mi va benissimo), però il lato infantile, molto di più di quello adolescenziale, mi affascina, perché è puro; c’è energia, c’è incoscienza. Mi sembra che a volte ci siano eccessive razionalità e logica, nel mondo in cui viviamo. Un po’ di strafottenza per me è un valore aggiunto, mi affascina. Io non voglio mai perderlo. Io spero di morire a centocinquant’anni (perché vivrò fino a centocinquant’anni) ancora un po’ bambino. Quella cosa lì mi dà la forza e la sicurezza di essere me stesso sempre, di essere spontaneo quando scrivo, di potervi parlare con spontaneità, non sovrastrutture. Sono innocuo come voi e come i bambini, e voglio rimanere così, indifeso. Non voglio ergermi ad adulto che sa la vita. Come artista essere bambino è un valore. L’esperienza può essere un danno per un artista. Io voglio vivere nell’inesperienza ed è difficile, perché ovviamente ce l’ho, l’esperienza; ma questa cosa del bambino la coltiverò per sempre.
Volevo parlare di Non lo so, un pezzo piuttosto arrabbiato. Ci ho sentito dentro del Dylan.
Questa cosa di Dylan è vera, lui per me è una divinità e Subterranean Homesick Blues nello specifico è stata d’ispirazione per questo brano, insieme ad altre cose di Frank Zappa e post punk. Citi un artista direttamente connesso a questa canzone, almeno a livello di ispirazione. In realtà parla di uno che non vuole sapere le cose: io non voglio saperle perché così mi sento più libero. Vuole essere una reazione all’eccessiva razionalità, come presa in giro, quasi. Questo mi spinge a continuare a imparare.
Non è l’unico pezzo arrabbiato di questo disco, che però si conclude con una ballata molto dolce [Mica siamo ad Hollywood, ndr].
Innanzitutto il brano inizia e finisce con: «Silvia, lo sai». Quando l’ho scritto avevo solo la melodia, poi mi è venuto da cantarci sopra: «Silvia, lo sai» e ho pensato che l’ha già scritto Luca Carboni e che anche Vasco Rossi ha scritto una canzone che si chiama Silvia, quindi pensavo di dover cambiare il nome di questo personaggio, ma non mi veniva niente di meglio e ho tenuto quello. “Silvia” è un nome come un altro, in quel pezzo parlo con una donna, che potrei essere anche io, la mia parte femminile, più creativa. Un po’ parlo agli altri, un po’ a me stesso. È una canzone molto intima.
Ci sono molti momenti nel disco in cui ti rivolgi ad un “tu”. Qual è l’ascoltatore ideale di Bugo e più in generali a chi parli nelle tue canzoni?
Parlo sempre agli altri, non voglio essere egoriferito. Per me è sempre un “noi”, non è mai un “io” da solo. Il “tu” è fondamentale, ad esempio il tuo parere sul disco è interessante, quello che pensano gli altri è interessante. Io ho detto la mia con le mie canzoni e con il disco, ma sta agli altri, al “tu”, decidere se merito di essere ascoltato, se ti piace, cosa ti piace, quali canzoni non ti interessano.
Non c’è un pubblico di riferimento specifico, quando è uscito il singolo mi hanno scritto tanti ventenni e questa cosa mi sorprende: io ne ho cinquanta e potreste essere tutti miei figli. Forse vedono in me qualcosa di giovanile, che li coinvolge. Se ti piace la mia musica, puoi avere cinquant’anni o venti e sono contento allo stesso modo. La mia musica piace a chi è puro di cuore, questa cosa un po’ l’ho notata.
Nel disco parli di amore, in particolare nei brani Salvo il tuo nome e Bilancio di coppia.
Salvo il tuo nome è l’amore più puro, quello che esplode e non sai contenere, tanto esplosivo che non sai esprimerlo a parole. L’amore è la forza più potente e bella dell’universo, ma ha anche dei risvolti che comportano difficoltà, perché la vita a volte ci mette il becco e ci possono essere problemi, all’interno di una coppia. Bilancio di coppia è un tipo di amore diverso, in quel caso ci sono delle cose che non vanno. Nei momenti di rabbia viene da chiedersi a cosa cavolo serva l’amore e sembra tutto inutile. Penso sia una cosa che abbiamo provato tutti e non ha senso vivere sulle nuvole: è giusto parlare di entrambi gli aspetti dell’amore. Non ho mai scritto dischi dove l’amore è tutto bello.
Il disco è stato registrato in diretta con la band. Come mai questa scelta?
Il disco è ben strutturato, anche se fatto con la band. Volevo trasmettere al pubblico e a me stesso una certa carica di energia, quindi il lavorare con la band con pochi strumenti ma le idee chiare mi sembra la cosa migliore per esprimere dei concetti strutturati.