– di Lucia Tamburello –
Un ulteriore tassello si somma al panorama industrial italiano: Dungeon Clash Tournament, il nuovo disco di PIPYA pubblicato il 12 gennaio per Trovarobato.
Muovendosi fisicamente tra Palermo e Bologna e, musicalmente, in tutta l’Europa, Federico Pipia ribadisce l’importanza della contaminazione e della comunicazione tra artisti proponendo una raccolta di featuring. Tramite la collaborazione con Rehlll, Rareș, il rapper Dirt O’Malley, i So Beast, Guantanamo, Trrrmà, Nizaar, e la Jacuzzi Gang, invita a non temere l’utilizzo e l’accostamento di termini come “scena” o “underground”.
Il disco si associa a cover corrispondenti a dei “livelli” di un videogioco. In ogni brano, il producer sfida l’artista con cui collabora adattandosi a linguaggi e suoni diversi tra loro.
Com’è nata l’idea di associare il tuo nuovo album, Dungeon Clash Tournament, ad un videogioco? È nato prima il disco o il suo concept?
L’idea che ha mosso questo progetto era inizialmente slegata dalla struttura videoludica che ha successivamente assunto; volevo realizzare un disco composto esclusivamente da featuring e collaborazioni, senza pormi dei limiti precisi su generi ed estetiche specifiche, in modo da approfondire varie possibilità, in una sorta di canovaccio aperto. Gradualmente, man mano che il disco si formava, ho cominciato ad associare le tracce a vari riferimenti extramusicali, sia per validare di volta in volta le molteplici direzioni che il disco prendeva, sia per farmi un’idea di quale potesse essere la mossa successiva: in questo senso l’atto stesso di composizione e assemblamento dell’album ha assunto le sembianze di un videogioco.
L’associazione con l’universo estetico del gaming è però arrivata alla fine della fase di produzione musicale; è quasi paradossale, riflettendoci, perché nei suoni e nella composizione ci sono molti richiami involontari a un certo tipo di estetica, tutta una serie di elementi combinati per esigenze e gusto musicali che sono rimasti in perfetta sintonia con il mondo dei videogiochi arcade che abbiamo poi deciso di indossare.
In questo lavoro adotti diverse lingue, molte sconosciute al pubblico italiano, un elemento che abbiamo avuto modo di sentire già da alcuni autori nazionali; come mai hai fatto questa scelta?
L’idea del multilinguismo proviene da diversi fattori, interni ed esterni al disco: da un lato la mia propensione personale nella ricerca di un grado di incomprensibilità e ambiguità in tutte le cose che faccio, dalla musica ad altri medium; quindi, una voglia di sperimentare in modo più o meno marcato tentando di allargare i limiti del contesto in cui, di volta in volta, mi muovo. Dall’altro lato un interesse per un linguaggio contaminato e un tentativo di entrare in contatto col profilo artistico-culturale delle persone con cui ho collaborato: più della metà degli artisti e delle artiste coinvolte nel disco parlano più di una lingua o nascono bilingui, quindi ho voluto spingere la scrittura in questa direzione, ampliando le possibilità fonetiche, testuali e sonore del disco. Un ulteriore livello è quello del linguaggio inventato, dall’approccio giocoso/punk degli jacuzzi gang alla concezione poetica delle invenzioni di Guantanamo: in qualche modo nulla è come dovrebbe essere o come ce lo si aspetterebbe.
I brani sono stati pensati come parte di un processo di disco “in loading”, dove ogni pubblicazione è concepita come fosse la fase di caricamento e di avanzamento di quello che poi è l’album completo. Il fatto che ogni traccia venga rappresentata come un livello di un videogioco fa pensare che ci sia una sorta di gerarchia tra di esse? È così? C’è?
Non c’è, in senso più profondo, ma mi piace che sembri esserci; ha un senso, a mio avviso, che ognuno crei arbitrariamente delle gerarchie o che al contrario non le crei e metta i livelli sullo stesso piano. L’estetica serve sempre a generare delle associazioni tra gli immaginari, soprattutto in assenza di un discorso chiuso o definito: la struttura delle cose sta in buona parte nell’immaginazione di chi le osserva.
Ogni pezzo vede la partecipazione di un artista della scena underground europea; cosa significa per te far parte di una scena? Cos’è, per te, l’underground musicale?
Una scena è una narrazione parallela o a posteriori di una realtà artistica; credo che ad oggi non manchi in Italia una scena possibile nell’underground (o nella musica sperimentale, alternativa, etc.), ma manca una sua narrazione che la validi sia internamente che ad un livello internazionale. È chiaro, anche se sembra paradossale, che ogni realtà necessita di una forma di rappresentazione estranea per esistere: l’affermazione di un discorso artistico-sociale all’interno di un immaginario, in questo senso, ne autorizza l’esistenza stessa. Penso che esista una scena fatta di persone e musicisti in Italia che, non trovando un riconoscimento complessivo, si atomizza in singoli individui; forse è controverso, ma in qualche modo trovo interessante questa frattura, questa contraddizione capace di generare risultati imprevedibili.
In generale sì, mi sento di far parte di una scena potenziale, con un potenziale inesplorato.
Qual è il rapporto tra Bologna e l’EDM?
Bologna non è l’unica città ad avere fatto la storia dell’EDM in Italia negli ultimi quarant’anni, ma forse è quella che ha stabilito con questo mondo il rapporto più perverso: è facile sentire influenze dance pressoché in tutti i generi di musica elettronica, dal noise alla ricerca, grazie soprattutto a una condivisione musicale avvenuta in parallelo in ambienti e festival underground e accademici nell’ultimo decennio. Inoltre, sono ritmi e sonorità che descrivono un contesto sociale, e chi ne fa parte tende a sottolinearlo, in maniera più o meno conscia, anche al di fuori dei club. Per quanto mi riguarda mi sono avvicinato a questa musica da estraneo, e sempre da estraneo la riconosco come parte centrale del mio bagaglio musicale.
Dungeon Clash Tournament è un lavoro che senza ombra di dubbio affonda le proprie radici nella musica elettronica, ma che non segue i canoni classici della musica da club; per te, qual è il luogo ideale in cui portare la tua musica dal vivo?
Non so se il progetto PIPYA, con la sua declinazione nel quartetto PIPYA and The GangBand, possa avere dei limiti di spostamento, ma certamente può esserci della musica dove c’è una predisposizione all’ascolto e alla condivisione, che è una qualità delle persone prima ancora che degli spazi. In ogni caso è un progetto che incrocia tanti generi ma non abbraccia nessun canone: è inadattabile, quindi può andare ovunque, dalle cantine ai club ai palchi.