Si intitola appunto “Faccia”, il nuovo disco di Riccardo Maffoni, intenso, ricco di ispirazione e decisamente maturo. Una lunga tracklist di inediti che finalmente tornano a fare luce sulla verità e sensibilità del semplice essere artista. Forti venature di rock all’italiana maniera secondo scuole di grandissimo pregio, e poi arrangiamenti e produzione che personalmente non trovo presuntuose e ritrovo questa impressione condivisa da numerose pubblicazioni che il disco ha ricevuto. La vita, la “faccia” dell’uomo e dell’artista, il divenire. Anche uno strumentale che ho digerito facilmente nell’estetica e poco nel dialogo di tutto il disco, una title track che si pregia di un bel video in rete e poi momenti di elettronica in “Mi manchi di più”, o sentimentalismi spietati di intime pitture come nella bellissima “L’uomo sulla montagna”. Un bel disco che ospitiamo volentieri.
Faccia, maschere, apparenze e bugie. Sinonimi che però concettualmente ritrovo a spasso nel disco, tra messaggi velati e racconti di vita. Che sia un concept album sul vivere comune?
Credo ancora alla forma album come ad un racconto, un libro, voglio dire, nonostante il mondo sia cambiato, la musica sia cambiata, è sempre arte, e questo per me è il punto di partenza. Esprimere gli stati d’animo, i miei pensieri, la mia vita attraverso la musica, raccontarlo nelle canzoni, raccontarlo con un album e credo che per certi versi, anche se FACCIA non è un concept album nel senso più stretto, lo è per quanto riguarda l’idea di concepimento. E’ stato pensato e prodotto come una lunga storia, canzone dopo canzone. Gli artisti si raccontano e raccontano. E’ un album che parla della vita, o come dici tu, sul vivere, insieme, in questa società, oggi, nel 2018.
L’ipocrisia di questo tempo, l’ipocrisia delle persone e quella verso noi stessi: quanto ha influito nella scrittura di questo disco?
C’è una certa dose di consapevolezza in queste canzoni. In questi anni scrivendo ho cercato di guardare quello che succedeva intorno a me, ma soprattutto quello che era successo e stava succedendo dentro di me. Oggi viviamo in questo mondo basato tutto sull’apparire, sul nuovo, sulla velocità. Forse fermarsi un istante, guardare, guardarsi, ascoltarsi può darci modo di capire cosa stiamo veramente facendo, capire chi siamo, capire se stiamo solo recitando una parte o se questa è la vita che veramente vogliamo. Forse più che ipocrisia c’è la voglia di capire da dove viene questa ipocrisia, questa paura di restare soli con noi stessi, questo bisogno di cercare sempre l’approvazione degli altri, questo perdere identità in una società basata sul tutto uguale. In queste canzoni ho cercato di rispondere a molte domande che mi pongo ogni giorno osservando tutti questi movimenti di pensiero che formano la nostra consapevolezza e la nostra coscienza.
Sono passati quasi 10 anni. Sono stati determinanti per la scrittura o forse tutto questo sarebbe potuto nascere in qualsiasi momento?
Credo che siano stati molto determinanti, soprattutto per darmi modo di avere le idee più chiare. Se ascolto le mie canzoni di 10 o 20 anni fa e quelle scritte per il nuovo album sento una grande differenza di scrittura, di pensiero. A 40 anni è normale avere una visione della vita totalmente diversa rispetto a quando ne hai 20, e questo ovviamente si riflette nella scrittura. Sono convinto che nonostante siano passati 10 anni dal mio ultimo album di inediti questo era il momento giusto per ripartire e onestamente, sono molto soddisfatto del lavoro svolto in studio.
Cosa ha pesato di più in questo disco e in generale nella tua musica: il rock americano o quello italiano?
Penso sia il rock americano che quello italiano. Quando intorno ai 20 anni ho deciso di lasciare i gruppi in cui suonavo per dedicarmi alla scrittura e alla carriera da solista ho approfondito molto il discorso cantautorale americano, specialmente autori come Springsteen, Dylan, Neil Young, ma nel corso degli anni ho sempre ascoltato moltissima musica. Dal blues di Muddy Waters agli Stones, da Modugno a Vasco Rossi, da Mozart a Lucio Battisti. Ho sempre cercato di allargare i miei ascolti, per avere un quadro sempre più ampio delle sonorità, della scrittura, del modo di concepire la musica. Quando scrivo una canzone non penso mai cose del tipo, ok ora voglio fare un pezzo stile rock americano, scrivo e basta, tutto avviene sempre in modo molto naturale, e questa cosa è rimasta inalterata nel tempo.
“Scala D”: da dove nasce questo tramonto di chitarre?
Come ti dicevo per alcuni anni, nella mia adolescenza, ho suonato con diversi gruppi, ma non ero il cantante, ero il chitarrista solista, passavo intere giornate ad esercitarmi alla chitarra. Anche se oggi mi occupo più che altro della scrittura di canzoni nella forma classica, quindi con un testo cantato, non di rado registro frasi, riff, giri di accordi solo con la mia chitarra. Scala D è uno di questi strumentali. In fondo la musica è l’unico vero linguaggio universale perché tutti proviamo emozioni.